«SCONOSCIUTO 1945», NUOVO ROMANZO
DI GIAMPAOLO PANSA
Il silenzio dei vinti sul calvario del mite ciabattino
Aveva cucito scarponi per i brigatisti neri
Perciò venne pestato, cinghiato, frustato
di Giampaolo Pansa
Dal capitolo «Il calzolaio» di Sconosciuto 1945 pubblichiamo la storia di un ciabattino di Tortona che accettò di lavorare per la Brigata nera, e per questo è bersaglio, dopo il 25 aprile, della vendetta partigiana
Non posso dimenticare il giorno in cui mia madre, piangendo, mi disse per la prima volta di suo padre, il mio nonno materno, V.M. E mi narrò la storia che adesso racconterò a lei [...].
Il 25 aprile 1945, mio nonno si trovava in Val Curone con un reparto della Brigata nera. Erano dei militi già demoralizzati, per la cattura del comandante Celeste Gianelli e di molti camerati, avvenuta a Garbagna poco più di un mese prima. Ci fu un fuggi fuggi generale. Anche mio nonno gettò la divisa. Dei contadini di Brignano Frascata gli diedero un abito da civile. E, così vestito, lui tornò a Tortona e si nascose in casa.
Come tanti altri nella sua situazione V. pensava di salvarsi. In fondo aveva fatto il milite calzolaio, non aveva mai sparato un colpo di fucile né picchiato nessuno, neppure durante le poche operazioni alle quali aveva dovuto partecipare. Ma qualcuno gli fece una spiata. E presto i partigiani di Castelnuovo bussarono alla sua porta.
In casa c’erano soltanto mia nonna e le due figlie. Furono costrette ad assistere impotenti a una perquisizione violenta dell’alloggio. Non avendo trovato V., i partigiani andarono a cercarlo nelle strade di Tortona. E lo incontrarono di fronte al municipio, dove V. si era recato per avere non so quale documento. Troppa imprudenza? Certo, davvero troppa per un milite della Brigata nera.
Ma immagino che, nelle sue ricerche per «Il sangue dei vinti», lei si sarà trovato di fronte a un’infinità di casi del genere: quelli di tanta gente presa e uccisa per aver continuato a muoversi in quei frangenti terribili come se niente potesse accadergli. Quando invece la voglia di vendicarsi poteva spazzare via anche le ultime ruote del carro, quelli che non avevano compiuto né violenze né crimini di guerra.
V. venne messo sopra un camion e portato a Castelnuovo. Qui i partigiani lo rinchiusero nella caserma dei carabinieri, vicino alla piazza. Per mio nonno cominciò una prigionia terribile. Gliene fecero di ogni colore. Venne pestato, cinghiato, frustato, tormentato in tutti i modi. Spesso, da un balcone posto al secondo piano, lo esponevano alla folla, che di sotto lo ingiuriava.
Una volta alla settimana, mia nonna e mia madre andavano a trovarlo, arrivando in bicicletta a Tortona. La mamma, che allora aveva 19 anni, restava fuori dalla caserma. La nonna entrava nell’edificio e, poco dopo, ne usciva terrorizzata per le condizioni in cui aveva trovato il marito.
Il calvario di V. durò un mese. Nell’ultimo incontro, aveva la faccia devastata dalle botte. Disse a mia nonna: «Abbi cura della piccola», intendendo la figlia minore. Forse si era reso conto che stava per arrivare il momento in cui l’avrebbero ammazzato.
Alla fine del maggio 1945, la moglie e la figlia, ritornate a Castelnuovo Scrivia per vederlo, non lo trovarono più. Allora domandarono a un comandante partigiano delle Garibaldi che fine avesse fatto il loro uomo. Ma lui si rifiutò di dirglielo. Non poteva non saperlo, però tenne la bocca chiusa. E quando in seguito ritornarono a chiederglielo, più di una volta, la risposta fu sempre un silenzio infastidito.
E’ possibile che V. sia morto in quella caserma per le percosse quotidiane. Però sono propenso a credere che sia stato soppresso in qualche luogo solitario, attorno a Castelnuovo Scrivia. Le mie sono soltanto congetture, perché ancora adesso non sappiamo dove e come sia stato giustiziato. Senza nessun processo, naturalmente. E condannando la sua famiglia a una pena senza fine: quella di non avere neppure un corpo da seppellire e da piangere.
Molti anni dopo, per attenuare il dolore di mia madre, ho acquistato un loculo nel cimitero di Tortona. E ci ho messo una lapide con la foto di V. e le date d’inizio e di fine della sua vita: 1900-1945. Ma quella tomba è vuota.
Penso che sia questo l’aspetto più barbaro della resa dei conti imposta ai fascisti sconfitti. Negare ai parenti la possibilità di rintracciare i resti dei loro morti è la crudeltà più dura da accettare. Anche da chi, cresciuto dopo, nell’Italia tornata alla libertà, si rende conto del clima di odio e di violenza cieca che imperava dopo la fine della guerra. E ne comprende le ragioni storiche e politiche.
Oggi mia nonna e mia zia non ci sono più. E’ scomparso anche mio padre. Soltanto mia madre è rimasta alle prese con quei ricordi tremendi. Ci sono cuori che sanguinano ancora. La crudeltà di troppa gente, in quei momenti, ha portato a negare a chi è sopravvissuto il ricordo delle persone care. Al di là dei bombardamenti, delle invasioni, delle privazioni, è questa la prova del male assoluto che la guerra porta con sé.
E qui voglio dirle un’ultima cosa. Entrambi i miei genitori, e io stesso, siamo sempre stati di sinistra. Intendendo per sinistra quel pensiero volto all’affrancamento dei poveri dalla miseria, alla piena realizzazione umana di tutti, in base alle proprie capacità, alla pace come condizione per un mondo migliore.
Sono certo che lei mi capisce, perché credo che siamo fatti della stessa pasta. E la ringrazio per avermi aiutato a non far dimenticare la storia di un semplice calzolaio, travolto da una guerra crudele. Molto più crudele e più grande di lui.
Come eravamo nei giorni aspri
Il nuovo libro di Giampaolo Pansa, Sconosciuto 1945 (Sperling&Kupfer), raccoglie lettere e ricordi di persone che hanno avuto parenti o amici vittime di vendette dopo il 25 aprile. Nel libro appare un interlocutore immaginario, l’avvocato Alberti, che è un parto di fantasia.
Pansa ha all’attivo una ventina di titoli. Fra i romanzi ricordiamo Ma l’amore no, Siamo stati così felici, I nostri giorni proibiti, La bambina dalle mani sporche, Il sangue dei vinti.
da
lastampa