La nascita degli Stati Uniti d’America, «figli della libertà»
Mandato da Pauler Lunedì, 04 luglio 2005, 08:19.
Vita, Libertà e ricerca della Felicità: i valori della dichiarazione d’indipendenza, principi universali
Con la rivoluzione americana degli stati-colonie che si ribellarono alle vessazioni della madrepatria, la storia dell’umanità ha mutato inevitabilmente il suo corso. Gli effetti derivanti dall’indipendenza conquistata e dalla costituzione di quella che diventerà la più grossa superpotenza mondiale, l’unica in grado oggi di garantire una parvenza di ordine internazionale, non si limitarono infatti al continente nordamericano, ma si allargarono anche alla vicina Europa infondendo principi e valori quali l’indipendenza, la libertà, la tutela della proprietà privata che diventeranno i fondamenti di un Occidente civilizzato ed evoluto.
La fine della guerra dei Sette anni (1756-1763) che vide lo scontro tra Inghilterra e Francia per il predominio sulle colonie insediate nel Nord America e nella penisola indiana, si concluse con il successo dei britannici che riuscirono ad imporsi grazie alla grande potenza della propria flotta navale. La Corona inglese si ritrovò a dominare le principali rotte commerciali mondiali, ma malgrado ciò le ingenti spese sostenute per finanziare la guerra e i maggiori costi derivanti dal controllo e dalla difesa dei nuovi territori conquistati, la costrinsero a individuare nuove soluzioni per incrementare i propri introiti e difendere l’impero sempre più esteso. Le mosse intraprese dal governo inglese si rivelarono tutte tese a infondere un sentimento di profonda insofferenza da parte delle colonie, che in più frangenti si videro sottoposte ad una serie di imposizioni che il Parlamento inglese varò negli anni seguenti la fine della guerra contro i francesi. Il governo britannico mise a punto una serie di provvedimenti fiscali per far fronte alle esigenze dell’amministrazione imperiale. La ragione che legittimava l’imposizione alle colonie di un carico tributario era essenzialmente legato e proporzionato ai vantaggi che le colonie stesse avevano ricavato dalla guerra vinta in termini di sicurezza esterna e di prospettive economiche; tra l’altro il governo doveva anche mediare tra il crescente nervosismo dei contribuenti delle metropoli, che sostenevano di non essere più in grado di accollarsi nuove tasse per garantire la sicurezza e lo sviluppo delle lontane colonie, e quelli coloniali, che storicamente non erano mai stati abituati a partecipare significativamente alle spese imperiali.
Allo Sugar Act, che imponeva una serie di dazi e tasse su prodotti come lo zucchero, il vino, il caffè, la seta, seguì nel 1765 lo Stamp Act, una imposta di bollo che gravava su tutti i documenti legali, i giornali, i contratti, le licenze ed ogni altro prodotto stampato in terra americana.
L’imposta suscitò una forte opposizione tra i coloni, soprattutto perché si trattava di provvedimenti diretti ad aumentare le entrate dello Stato e questo, ai loro occhi, costituiva una gravissima innovazione nella prassi costituzionale. Generalmente erano le assemblee rappresentative locali che legiferavano, per la verità in modo piuttosto discutibile, in materia di imposizione fiscale e di sicurezza interna e per i coloni americani veniva violata la norma per la quale ogni suddito britannico non poteva essere tassato su decisione del Parlamento inglese se nello stesso non vi fossero propri rappresentanti.
Le colonie americane si riunirono a New York nello Stamp Act Congress per formalizzare la propria opposizione alle indebite ingerenze della madrepatria ed il boicottaggio dei prodotti britannici che fu deciso, spinse all’annullamento delle imposte da parte del Parlamento, anche sulle pressioni dei mercanti inglesi che videro significativamente ridotti i propri introiti.
La cancellazione dell’imposta non solo lasciò irrisolti i problemi finanziari della Gran Bretagna, ma per la prima volta sancì il distacco tra le colonie dalla madrepatria, incrinando il legame di fiducia e di appartenenza alla corona fino ad allora mai messo in discussione. Emblematiche furono le parole di Benjamin Franklin, che dinanzi alla camera dei comuni per riferire sulla disposizione degli animi tra i coloni nei confronti della metropoli, affermò: “Se fino al 1763, la Corona inglese era stata la migliore del mondo, tanto che la metropoli non aveva avuto bisogno di spendere un soldo per tenerli soggetti e governarli non era costato alla Gran Bretagna più di una penna, dell’inchiostro e della carta, nel giro di neppure tre anni quel sentimento era stato ferito dalla pretesa del parlamento di ignorare i diritti costituzionali dei coloni e questi non si sarebbero mai piegati a farsi tassare senza il proprio consenso”.
Di sicuro l’errore più grosso commesso dal governo, all’epoca presieduto da Grenville, fu quello di condensare in tempi troppo brevi provvedimenti che erano di per sé impopolari e non comprese che il ruolo della Gran Bretagna con le proprie colonie, dopo la guerra dei Sette anni, era destinato inevitabilmente a mutare e gli inglesi in quel modo si posero come i prevaricatori della libertà che costituiva l’elemento fondante delle colonie. Questa contrapposizione diventerà il tema ispiratore della rivoluzione americana.
Bocciate le imposte dello Sugar Act e dello Stamp Act, il governo inglese non si diede per vinto e cercò di studiare nuovi meccanismi per incrementare le proprie entrate. Non potendo introdurre tasse senza l’approvazione delle colonie, nel 1767 furono imposti nuovi dazi sull’importazione di vetro, piombo, carta, vernici e tè in quelli che saranno noti come i Townshend Acts, che istituirono anche il Consiglio di vigilanza doganale per l’America, allo scopo di imporre la stretta osservanza degli Atti di navigazione. Si riteneva in questo modo di aggirare le eccezioni poste dagli americani contro le imposizioni del governo Grenville, ma la speranza venne disattesa. Le autorità inglesi furono costrette ancora una volta a tornare sui propri passi dopo anni di tensioni e violenti scontri. Ma tre anni dopo, nel tentativo di scongiurare la bancarotta della Compagnia inglese delle Indie Orientali, il Parlamento conferì il monopolio della vendita di tè in America, facendo sollevare immediatamente tra i coloni nuovamente la questione dell’incostituzionalità delle misure introdotte.
Mentre nei porti di New York e Philadelphia non fu permesso alle navi inglesi di scaricare il tè, a Boston la protesta assunse toni più clamorosi e con il cosiddetto Boston Tea Party, il carico venne addirittura rovesciato in mare.
Al Parlamento inglese si ponevano dinanzi due possibili strade da intraprendere: tornare ancora una volta sui propri passi, o reprimere i focolari di rivolta. Fu preferita la strada dell’approvazione di misure repressive, battezzate dai coloni con il nome di Intolerable Acts. Il porto di Boston fu chiuso e fu rafforzato il regime di occupazione militare della città. Per le colonie americane le prerogative di autogoverno garantire dall’originale Carta del Massachusetts furono significativamente ridotte e si ponevano le premesse dello scontro.
Il 27 maggio 1774 un’assemblea raccoltasi a Williamsburg, in Virginia, prese l’iniziativa di convocare a congresso i rappresentanti di tutte le tredici colonie d’America ed all’appello mancarono solo i rappresentati della Georgia, fedeli alla Corona inglese. Il seme rivoluzionario cominciò a germinare al Congresso sotto la spinta dei radicali, mentre si iniziavano ad ipotizzare delle nuove forme di governo arrivando alla creazione di un’unione federale.
Pur non volendolo ancora, le colonie uscivano dall’orbita imperiale, contrapponendosi con le armi alla metropoli e costituirono un esercito continentale di 20.000 uomini al cui comando fu posto George Washington, ponendo fine all’organizzazione spontanea delle bande armate e delle forze irregolari.
Gli inglesi, tuttavia, non si fecero intimidire ed accettarono la sfida. Giorgio III dichiarò, il 23 agosto 1775, ribelli le colonie ed il Parlamento votò una legge che proibiva qualunque atto di commercio con esse, rovesciando in tal modo le posizioni: stavolta erano le colonie a subire il boicottaggio dei commerci.
Tra l’inverno e la primavera del 1776 maturò l’indipendenza. Fu Thomas Paine, con le pagine appassionate di un suo libretto, Common Sense, a convogliare verso l’indipendenza gli ancora incerti sentimenti dell’opinione pubblica americana. Per Paine non c’era ragione che un continente fosse governato da un’isola e per di più governato male da re tiranno. L’unico rimedio intravisto era costituito dall’indipendenza e dall’instaurazione di un regime repubblicano. Su una popolazione nelle tredici colonie di circa due milioni di abitanti, furono vendute la bellezza di oltre 100mila copie dell’opera di Paine che preconizzava l’indipendenza come veicolo indispensabile per giungere alla Repubblica che avrebbe assicurato la libertà e la felicità degli Americani. Ma Libertà e Felicità costituivano il contenuto propriamente rivoluzionario dell’appello di Common Sense, ma non era limitato solo agli Americani. Nell’introduzione del libretto, Paine scriveva che «la causa dell’America è in larga misura la causa dell’intera umanità». Come dire che la lotta per l’indipendenza non riguardava soltanto gli americani, ma doveva essere sentito come un obbligo morale verso il mondo. I valori, affermati tramite l’indipendenza e l’indipendenza stessa, erano universali, radicati nella natura e nella destinazione degli uomini (Rizzoli-Larrousse, Storia Universale).
Le discussioni al Congresso continentale sfociarono il 4 luglio 1776 nella Dichiarazione d’indipendenza, con la quale le colonie si costituivano in stati liberi e indipendenti, impegnandosi a respingere l’invasione da quella che ormai veniva considerata una potenza straniera.
La Dichiarazione riassunse e compose in termini di perentoria solennità ciò che Thomas Paine aveva già divulgato con grande efficacia. Il secondo capoverso comincia infatti con queste parole: «Noi consideriamo queste verità di per sé evidenti: tutti gli uomini sono creati uguali. Il Creatore li ha dotati di alcuni diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà e la ricerca della felicità. I governi sono stati istituiti tra gli uomini per assicurare tali diritti e derivano i loto giusti poteri dal consenso dei governati» Continua poi affermando che se la forma di governo risulta inadeguata a raggiungere questi scopi, il popolo ha il diritto di modificarla. La rivoluzione dunque come imperativo etico-religioso, scaturito da un’intensa esperienza civile vissuta in condizioni ambientali e storiche particolari; perciò, oltre che praticata e legittimata in nome del diritto naturale, sentita come un dovere verso se stessi e verso gli altri. Agli altri, poi, intendere il messaggio, seguire la via e il modello. Il resto del documento resta costituito da un riepilogo della lunga controversia che aveva opposto la metropoli alle tredici colonie, con l’elenco puntiglioso delle doglianze americane.
L’approvazione della Dichiarazione d’indipendenza, che non ebbe mai valore di carta costituzionale, segnò comunque l’atto di nascita della nazione americana, pose al Congresso la responsabilità ed il peso di costruire una struttura organizzativa volta a sostenere quella che sarebbe stata la guerra d’indipendenza, dovendo per questo reperire le risorse finanziarie, gli uomini e coordinarli nella lotta. Una impresa che appariva particolarmente gravosa, ma che vide gli Stati Uniti inserirsi in un contesto internazionale che isolò gli eserciti inglesi e portarono alla loro resa. I negoziati di pace si trascinarono fino al 3 settembre del 1783, quando la Gran Bretagna firmò il trattato di Parigi, con il quale riconobbe l'indipendenza delle ex colonie; i confini degli Stati Uniti d'America vennero stabiliti a ovest con il Mississippi, a nord con il Canada, a sud con la Florida.
a cura di Paolo Carotenuto
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