Il sofà delle muse

dedicato ai radicali...

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*Ishtar*
view post Posted on 31/12/2006, 19:46




Militi ignoti della fede testimoni fino al sangue

Proprio mentre tv e pubblicità non parlano che di cenoni, botti e feste di fine anno, l’agenzia vaticana Fides ha diffuso l’elenco dei missionari (religiosi, suore, preti e laici) caduti nel corso del 2006. Il contrasto non potrebbe essere più stridente: da un lato l’idolatria dell’effimero, dall’altro la memoria di chi ha dato la vita per un Tesoro che non passa.
La lista di Fides comprende 24 nomi; sale così a 215 (ma la cifra è certo per difetto) il numero dei "testimoni della fede" uccisi dal 1° gennaio 2000 ad oggi, ossia dall’inizio del Giubileo, nel corso del quale Giovanni Paolo II avvertì che "la Chiesa è tornata nuovamente ad essere Chiesa di martiri".
Ancora una volta abbiamo conferma della "globalizzazione del martirio" in atto. Tutti i continenti, seppur in misura diversa, sono toccati dal fenomeno, a cominciare dalle cosiddette "terre di missione", il cui protagonismo nell’annuncio "ad gentes" è, anzi, un fatto nuovo da sottolineare con interesse. Ma val la pena ricordare che una religiosa sessantenne, suor Karen Klimczak, è stata uccisa a Buffalo, negli Usa. Era il 14 aprile, venerdì santo. Anche per lei c’è stato un tradimento: a ucciderla, infatti, è stato un ospite della casa di accoglienza per ex detenuti in cui lavorava.
Circostanze e luoghi dei "martiri" del 2006 non fanno che confermare alcune costanti. Da un lato l’estremismo musulmano semina morte anche tra persone che la gente – e spesso anche i musulmani moderati – considerano amiche. È il caso di don Andrea Santoro, il sacerdote romano ucciso in Turchia a febbraio, così come di suor Leonella Sgorbati, la missionaria della Consolata trucidata insieme alla sua guardia del corpo (musulmana), in Somalia nel settembre scorso. Che se n’è andata offrendo il perdono ai suoi uccisori.
Va preso atto tuttavia che è in terre ufficialmente cristiane che si registra il più alto numero di "martiri". A riprova del fatto che vale ad ogni latitudine quanto diceva padre James Walsh, missionario americ ano e vescovo in Cina: "Il cristianesimo è una specie di dinamite e quando i missionari sono inviati ad annunciarlo si devono aspettare delle esplosioni". Cristiani si dichiarano il 78% dei 35 milioni di abitanti del Kenya, Paese che quest’anno registra tre sacerdoti uccisi. Cattolico è il Brasile che ogni anno vede cadere laici, suore (come Dorothy Stang) o preti (due quest’anno, uno dei quali è italiano, monsignor Bruno Baldacci) sotto i colpi di quanti giudicano scomodi i credenti che si battono per la giustizia. Lo stesso vale per la cattolicissima Colombia, dove testimoniare la passione per la riconciliazione chiede sempre un alto prezzo.
Molti dei "militi ignoti della fede" sono stati uccisi in circostanze all’apparenza fortuite. Un esempio fra i tanti: fratel Augustine Taiwa, dei Fatebenefratelli, è stato colpito a morte la sera del 28 agosto nei pressi di Port Moresby, capitale della Papua Nuova Guinea, da un’asta in acciaio lanciata da tre giovani ubriachi.
Eppure sbaglieremmo associando l’idea del martirio al caso o, peggio, al fallimento. Il martirio non è un incidente di percorso, tutt’altro: dall’inizio della storia cristiana la "testimonianza alta" della fede è sempre stata esposta al rischio del sangue. I "missionari martiri" del 2006 non sono che l’ultimo anello di questa infinita e mirabile catena.

di Gerolamo Fazzini

da avvenire online
 
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*Ishtar*
view post Posted on 20/1/2007, 14:57




Radicali nell’esecutivo alla ricerca del ruolo perduto
Dove va, e cosa fa, Radicali italiani? E’ la domanda che l’ex segretario Daniele Capezzone ha rivolto al Comitato nazionale di fine anno. Domanda “lunare”, ha replicato Rita Bernardini: “Sappiamo tutti che senza iscrizioni chiudiamo”. Solo gli strascichi di un congresso dal clima avvelenato possono far apparire come contrapposte due istanze entrambe fondate che richiedono soluzioni da far camminare insieme sostenendosi l’un l’altra. Il rilancio, dal punto di vista economico e delle energie umane, del soggetto politico si consegue sia con una mobilitazione permanente ed eccezionale sulle iscrizioni, sia precisando il profilo e il cammino politico del partito che si chiede di sostenere. Con l’iniziativa nonviolenta, prima per salvare Saddam, poi per la moratoria della pena di morte, Pannella non ha “astutamente colto al volo”, come qualcuno ha scritto su “il Giornale”, l’occasione per distrarre dalle grandi difficoltà della presenza dei radicali nella maggioranza e nei rapporti con il governo. Non è un calcolo che appartiene alla storia e alla prassi di Pannella. Piuttosto, questo sì, a fronte di iniziative di successo, come quella di Piergiorgio Welby e quella per la moratoria, che ha il merito di aver scrollato il governo dalla sua posizione attendista avvicinandoci a un risultato storico, rimane inevaso il nodo del ruolo politico dei radicali nella maggioranza e al governo. Ruolo che a tutt’oggi rimane un oggetto misterioso agli stessi elettori e militanti radicali, imprigionato com’è nella lealtà a Prodi e in una Rosa nel Pugno che esiste solo in aula, nelle mani del capogruppo Roberto Villetti.

Intervenendo a una Direzione di qualche settimana fa il ministro Emma Bonino ha denunciato un “disagio quasi insostenibile”. Dalla politica estera a quella economica, dai diritti civili alla laicità. “Non c’è niente nel merito – del metodo non ne parliamo – della nostra visione: ogni giorno mi chiedo ‘ma io che cazzo ci sto a fare’? Nessuno vuole fare sponda con i radicali”. Un grido d’allarme che però non ha suscitato un gran dibattito. A sentire le riunioni dei vertici del partito, la formula dei “buoni a niente”, con la quale in modo così calzante si etichetta il governo dell’Unione per spiegare che quando si è accettato di appoggiare Prodi si sapeva che si avrebbe avuto a che fare con dei “buoni a niente”, e quindi che oggi “non si è delusi perché non ci si era illusi”, rischia di divenire un alibi dietro il quale rassegnarsi alla propria irrilevanza. Ma i radicali sono in Parlamento, e addirittura, per la prima volta, al Governo! Non possono permettersi di allargare le braccia e volgere lo sguardo altrove perché contano poco e non c’è da aspettarsi nulla di buono dal Governo, lasciando isolati in attacco due centravanti del peso e del coraggio di Bonino e Capezzone. Se non altro perché agli elettori suona strano sentir dire che Prodi “non può essere l’alternativa”, ma che “deve durare comunque”. “La durata è la forma delle cose”, ma a volte di cose orribili.

Occorre trasmettere con la propria presenza parlamentare e governativa non l’impegno su tante singole “issues”, ma un’idea complessiva di riforma profonda e liberale di stampo anglo-americano: delle istituzioni, dell’economia, della giustizia, della società. Come si fa, per esempio, a snobbare la Finanziaria più “di regime” che sia stata fatta negli ultimi vent’anni, più depressiva per la realtà sociale di milioni di persone, e a non vedere in essa il più formidabile dei volani dei costi della politica, quei costi che fanno di anno in anno scivolare l’Italia nell’Indice della libertà economica, oggi dopo Namibia, Belize, Slovenia, Kuwait e Uganda? Come si fa, sulla legge elettorale e sulla scuola e l’università, a lasciare campo libero a Villetti? E come si fa a ignorare una politica estera ambigua e cinica, e l’apertura di Prodi sulla revoca dell’embargo delle armi europee alla Cina, quando il dissidente Wei Jingsheng, militante storico del Partito Radicale, è venuto un mese fa a Bruxelles a letteralmente scongiurare i compagni radicali di fare tutto il possibile perché non venga revocato?

Non che alcune battaglie o convinzioni siano in questi anni state abbandonate, ma i radicali, proprio oggi che sono nelle istituzioni, non riescono a vedere, e quindi neanche a comunicare, la visione d’insieme. Ciò di cui in un recente articolo ha parlato Biagio de Giovanni: quella politica che “si confonde con la vita”, che è “la forza del radicalismo italiano”, è anche la sua “debolezza”: si basa sulla carica dirompente, ma momentanea, di quelle “occasioni estreme” che proclamano il superamento di forme vecchie e stanche, ma è incapace della “proposta generale”. Quando i radicali furono capaci di una “proposta generale” riuscirono a raccogliere nel ‘93 oltre 40 mila iscrizioni e nel’99, l’8,5% dei voti. E’ in questa incapacità che confida il “regime” nel tenere sotto controllo l’intemperanza radicale. D’altra parte, mentre conquistavamo il divorzio e l’aborto si stava di fatto socializzando l’economia e dilatando a dismisura il debito pubblico, ponendo le basi per il definitivo rafforzamento del regime partitocratico. Così oggi forse conquisteremo i Pacs, mentre Prodi e Padoa-Schioppa continuano a riempire il sacco. E ai vertici del partito c’è chi, come Gianfranco Spadaccia, leader storico, vorrebbe vedere liquidata l’esperienza degli anni ‘90, proprio oggi che stanno maturando le condizioni per quelle battaglie di riforma economica e sociale che i radicali in quegli anni, in solitudine, impostarono con i loro referendum.

Dieci anni fa erano impensabili gli editoriali dei Giavazzi, degli Ichino, dei Nicola Rossi, le relazioni di Monti e Draghi. Non è il momento di passare il testimone, semmai di mettersi in testa al gruppo. In questo centrosinistra statalista e dirigista, punitivo nei confronti dell’impresa, ma anche del lavoro, per i radicali l’occasione è d’oro per porsi come interlocutori di quel mondo produttivo già deluso, che non trova rappresentanza neanche nei vertici di Confindustria. Oggi si può fare appello al “Terzo Stato” dei produttori medi e piccoli (non assistiti come lo è la Grande Industria) e degli “outsider”, respinti da un assetto burocratico-corporativo in cui sono sempre i soliti privilegiati e parassiti a dividersi il bottino della spesa pubblica. Invece, ci tocca sentire Spadaccia che va all’attacco dei contratti atipici, difende i concorsi pubblici, invoca nuove assunzioni nel pubblico impiego, assolve la Finanziaria. Ci dice che non gli piace questa sinistra di D’Alema, Fassino, Rutelli e Prodi, ma, aggiunge, “se vado alle feste dell’Unità e di Liberazione, là mi sento a casa mia, è il mio popolo. Lì sono riconosciuto e lì riconosco”.

Siamo dunque alla politica dell’”annusarsi” tra simili, quando proprio i radicali ci hanno insegnato che a partire dai contenuti si trovano i compagni di strada per le proprie battaglie? Cosa si sarebbe detto di Benedetto Della Vedova se avesse parlato in questi termini delle feste della Lega o di Forza Italia? Se un partito d’opinione non si dà come missione quella di parlare a tutti i settori dell’opinione pubblica, ha poche speranze di aumentare le iscrizioni. “Noi ci riconosciamo al 100%” nelle proposte dei “volenterosi”, ha ripetuto ultimamente Pannella a Radio Radicale. Di più, “neanche a dirlo, basta guardare i nostri referendum, i 40 anni di nostra politica”. Incontestabile, ma allora, come mai un certo fastidio per l’iniziativa dei “volenterosi” è tangibile? Perché in Direzione Pannella ammette che Capezzone “può fare molti danni”, e lancia durissime accuse: è “bravissimo a raccontare balle, a ingannare, a mentire costantemente”. Dopo cinque anni se ne accorge? Non è solo, ormai, una questione personale, c’è anche l’evidenza di due linee politiche al momento divergenti.

E’ vero, sulle riforme economiche tutti d’accordo, ma ci sono due strategie diverse rispetto a “come” si sta nella maggioranza e al Governo, è inutile negarlo, e sarebbe stato più corretto che si fossero confrontate al Congresso di Padova, mentre si è preferito personalizzare lo scontro. Da una parte i “volenterosi” pongono al Governo un terreno di sfida per le riforme il cui effetto destabilizzante sulle sorti dell’Esecutivo dipende, in ultima istanza, da Prodi stesso, che può raccogliere, o sfuggire, costringendo i riformatori a volgersi altrove. E l’ambiguità della posizione dell’ex segretario radicale è per lo meno al 50% determinata dall’ostilità che riscontra all’interno dei vertici del suo partito, da Pannella in primis: più è messo alla porta, più inevitabilmente circolano le voci sulla sua prossima destinazione. Dall’altra, per il leader radicale il governo Prodi “deve comunque essere aiutato a durare”. Il disagio da parte di Pannella è comprensibile. I contenuti del manifesto dei “volenterosi” fanno parte della storia radicale, ma paradossalmente non può aderirvi perché ha scelto un altro metodo nei rapporti con Prodi. Tuttavia, non si può pretendere che altri non calchino una linea politica che per il momento si è deciso di non calcare. Da una parte, l’approccio è da “spina nel fianco”, dall’altra da “ultimo giapponese”. Ricordando che l’ultimo giapponese, Shoichi Yokoi, ha atteso 27 anni prima di uscire dalla giungla.

di Federico Punzi da l'opinione

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