Il sofà delle muse

La rabbia e l'orgoglio:in ricordo di Oriana

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verbenasapiens
view post Posted on 17/9/2006, 06:52 by: verbenasapiens




ORIANA Fallaci è stata la più grande giornalista italiana, e uno dei personaggi che hanno scolpito il secolo che si è appena chiuso. Purtroppo, nessuna di queste due definizioni è oggi condivisa dall'establishment italiano. Ma anche questo «disconoscimento» è uno degli elementi definitori della biografia della Fallaci. Lei è stata uno dei primi cittadini del mondo globale, in cui il luogo di nascita fornisce la radice culturale, ma è la società che si sceglie quella cui si appartiene. Nata in Italia, la Fallaci è infatti da decenni un personaggio il cui senso e la cui influenza sono totalmente al di là dell'Italia. Il suo è un contraddittorio profilo: pur avendo rivoluzionato il linguaggio giornalistico e ridefinito la modernità dell’identità femminile, è rimasta sempre un outsider. Un destino che è esso stesso un tracciato del XX secolo.

Negli ultimi anni la sua voce è stata definita da una buona parte della sinistra «razzista» e «guerrafondaia»: sarebbe un vero peccato se la cultura democratica di cui si sentiva parte la consegnasse oggi alla storia con queste stupide etichette. La Fallaci è nata dentro la Resistenza italiana, di cui aveva il culto. Ed è morta senza mai compiacere nessuno - che è poi l'unica vera lezione di quella Resistenza.

In ogni giovane donna (e sicuramente in ogni giornalista) di questi ultimi trent'anni, c'è qualcosa delle treccine di Oriana che inseguita dalle fucilate vietcong corre a testa bassa sul ponte di Kien-Hoa. Di quelle treccine oppure di quella scriminatura dritta come una spada tra capelli piatti, lisci, lunghi. Portava i pantaloni quando persino in America una donna coi pantaloni non poteva entrare in un locale pubblico. In un mondo coperto di fondotinta, trasformò il trucco in un segno: il ben visibile rigo di eyeliner sugli occhi, due righe applicate «velocemente, tac, tac, tac» come raccontava lei, cogliendo così la fretta della nuova vanità femminile. «Non sono il tipo di persona che accetta regole solo perchè sono regole» dichiarò una volta la Fallaci a Scavullo, il famoso fotografo delle dive. Le regole erano quelle della moda, ma la battuta coniò un piccolo manifesto della indipendenza dal trucco come metafora. Una affermazione che andrà giù molto bene alle assetate figlie della generazione successiva.

Il fulcro della identità pubblica della Fallaci è ancora oggi, quello della giornalista di guerra; a lei è cioè legata, nell'immaginario collettivo, una invasione doppia: simbolizza con estrema chiarezza l'appropiarsi da parte di una donna della professionalità e del coraggio. Due definizioni per eccellenza della virilità. Questo ribaltamento estremo degli schemi del maschile e del femminile, è stato l'elemento davvero nuovo, davvero moderno che la Fallaci ha proposto alla identità comune delle donne. L'invasione di campo, tuttavia, non basta ancora a spiegare l'impatto avuto dal modello Fallaci. Ad esempio, Fallaci non è stata la prima giornalista di guerra della storia del giornalismo. Martha Gellhorn, Margaret Burke White, Janet Flanner, per dire solo i nomi delle più famose donne che hanno seguito la Seconda Guerra Mondiale. Ma è solo la Fallaci a diventare un archetipo.

Perchè la Fallaci non si limita a fare «l'uomo giornalista», ma reinventa radicalmente il mestiere. Un cambiamento che arriva ai lettori in maniera molto chiara e diretta. Dietro la passione per la giovane Italiana con le treccine che arriva in Vietnam c'è la percezione da parte del pubblico che quella immagine è il segno di un nuovo modo di fare giornalismo. E, come spesso accade, è il pubblico a capire prima di altri un cambiamento cui l'establishment italiano fa resistenza. Quella di Oriana Fallaci è una sorta di rivoluzione copernicana dentro il mestiere. Il giornalista - secondo convenzione - è ai lati della storia, la vede scorrergli davanti e la racconta, cercandone quell'ideale e impossibile punto di perfezione che si chiama equilibrio giornalistico. Fallaci straccia le convenzioni: si mette saldamente piantata al centro della storia; il suo IO diventa addirittura il punto centrale del racconto. Con il risultato che, con lei, il giornalista si mette allo stesso livello della storia e/o del personaggio che racconta. Attuando così uno straordinario cambiamento di approccio.

Con Oriana Fallaci nasce un nuovo modo di lavorare e un nuovo genere: le interviste. Da allora, in ogni giornalista, in ogni parte del mondo, che fa una domanda a una conferenza stampa c'è oggi un pizzico di quella arroganza e di quella vita che lei ha immesso nel giornalismo. Considerato tutto ciò, come meravigliarsi della immensa popolarità di cui ha sempre goduto? Per il pubblico questa operazione culturale era forte, comprensibile e identitaria.

Il contrasto tra la reputazione internazionale della giornalista e gli scarsi riconoscimenti italiani sono tali da costituire un vero caso su cui riflettere. In maniera rovesciata questo scontro racconta infatti bene i limiti culturali di un establishment che ha vissuto sempre con gli occhi al di qua delle Alpi; e rivela anche quanto a lungo sia stato (stato?) maschile e mafioso il mondo giornalistico del nostro paese. Il tradizionale conflitto che i suoi lavori suscitano - tra immensa popolarità di vendite e l'establishment culturale - si è ripresentato, ma in maniera molto più drammatica, dopo l'11 settembre, con le sue ultime pubblicazioni, rudi, aggressive, sfacciate. Ha venduto come sempre milioni di copie, ma ha suscitato divisioni e critiche anche in un settore di pubblico , quello della sinistra e dei giovani, che l'aveva sempre guardata come un modello.

Il fatto è che il mondo che lei racconta nei suoi ultimi lavori, non ha nè «se» nè «ma». Era consapevole - e ferita anche se non lo avrebbe mai ammesso - delle critiche. Ma pensava fosse giusto soprattutto dire quello che pensava; soprattutto trovava un peccato la piaggeria, la compiacenza nei confronti degli altri. D'altra parte, questo era il metodo Fallaci: scontrarsi con ciò che a suo parere era un luogo comune. Che una volta questo attacco abbia preso di mira Henry Kissinger e poi il relativismo etico della sinistra, non è stato il segno di una sua evoluzione politica. E' stato semplicemente il modo di Oriana di esercitare il «mestiere delle armi».

di Lucia Annunziata da lastampa.it
 
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