Il sofà delle muse

La rabbia e l'orgoglio:in ricordo di Oriana

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verbenasapiens
view post Posted on 17/9/2006, 06:52




ORIANA Fallaci è stata la più grande giornalista italiana, e uno dei personaggi che hanno scolpito il secolo che si è appena chiuso. Purtroppo, nessuna di queste due definizioni è oggi condivisa dall'establishment italiano. Ma anche questo «disconoscimento» è uno degli elementi definitori della biografia della Fallaci. Lei è stata uno dei primi cittadini del mondo globale, in cui il luogo di nascita fornisce la radice culturale, ma è la società che si sceglie quella cui si appartiene. Nata in Italia, la Fallaci è infatti da decenni un personaggio il cui senso e la cui influenza sono totalmente al di là dell'Italia. Il suo è un contraddittorio profilo: pur avendo rivoluzionato il linguaggio giornalistico e ridefinito la modernità dell’identità femminile, è rimasta sempre un outsider. Un destino che è esso stesso un tracciato del XX secolo.

Negli ultimi anni la sua voce è stata definita da una buona parte della sinistra «razzista» e «guerrafondaia»: sarebbe un vero peccato se la cultura democratica di cui si sentiva parte la consegnasse oggi alla storia con queste stupide etichette. La Fallaci è nata dentro la Resistenza italiana, di cui aveva il culto. Ed è morta senza mai compiacere nessuno - che è poi l'unica vera lezione di quella Resistenza.

In ogni giovane donna (e sicuramente in ogni giornalista) di questi ultimi trent'anni, c'è qualcosa delle treccine di Oriana che inseguita dalle fucilate vietcong corre a testa bassa sul ponte di Kien-Hoa. Di quelle treccine oppure di quella scriminatura dritta come una spada tra capelli piatti, lisci, lunghi. Portava i pantaloni quando persino in America una donna coi pantaloni non poteva entrare in un locale pubblico. In un mondo coperto di fondotinta, trasformò il trucco in un segno: il ben visibile rigo di eyeliner sugli occhi, due righe applicate «velocemente, tac, tac, tac» come raccontava lei, cogliendo così la fretta della nuova vanità femminile. «Non sono il tipo di persona che accetta regole solo perchè sono regole» dichiarò una volta la Fallaci a Scavullo, il famoso fotografo delle dive. Le regole erano quelle della moda, ma la battuta coniò un piccolo manifesto della indipendenza dal trucco come metafora. Una affermazione che andrà giù molto bene alle assetate figlie della generazione successiva.

Il fulcro della identità pubblica della Fallaci è ancora oggi, quello della giornalista di guerra; a lei è cioè legata, nell'immaginario collettivo, una invasione doppia: simbolizza con estrema chiarezza l'appropiarsi da parte di una donna della professionalità e del coraggio. Due definizioni per eccellenza della virilità. Questo ribaltamento estremo degli schemi del maschile e del femminile, è stato l'elemento davvero nuovo, davvero moderno che la Fallaci ha proposto alla identità comune delle donne. L'invasione di campo, tuttavia, non basta ancora a spiegare l'impatto avuto dal modello Fallaci. Ad esempio, Fallaci non è stata la prima giornalista di guerra della storia del giornalismo. Martha Gellhorn, Margaret Burke White, Janet Flanner, per dire solo i nomi delle più famose donne che hanno seguito la Seconda Guerra Mondiale. Ma è solo la Fallaci a diventare un archetipo.

Perchè la Fallaci non si limita a fare «l'uomo giornalista», ma reinventa radicalmente il mestiere. Un cambiamento che arriva ai lettori in maniera molto chiara e diretta. Dietro la passione per la giovane Italiana con le treccine che arriva in Vietnam c'è la percezione da parte del pubblico che quella immagine è il segno di un nuovo modo di fare giornalismo. E, come spesso accade, è il pubblico a capire prima di altri un cambiamento cui l'establishment italiano fa resistenza. Quella di Oriana Fallaci è una sorta di rivoluzione copernicana dentro il mestiere. Il giornalista - secondo convenzione - è ai lati della storia, la vede scorrergli davanti e la racconta, cercandone quell'ideale e impossibile punto di perfezione che si chiama equilibrio giornalistico. Fallaci straccia le convenzioni: si mette saldamente piantata al centro della storia; il suo IO diventa addirittura il punto centrale del racconto. Con il risultato che, con lei, il giornalista si mette allo stesso livello della storia e/o del personaggio che racconta. Attuando così uno straordinario cambiamento di approccio.

Con Oriana Fallaci nasce un nuovo modo di lavorare e un nuovo genere: le interviste. Da allora, in ogni giornalista, in ogni parte del mondo, che fa una domanda a una conferenza stampa c'è oggi un pizzico di quella arroganza e di quella vita che lei ha immesso nel giornalismo. Considerato tutto ciò, come meravigliarsi della immensa popolarità di cui ha sempre goduto? Per il pubblico questa operazione culturale era forte, comprensibile e identitaria.

Il contrasto tra la reputazione internazionale della giornalista e gli scarsi riconoscimenti italiani sono tali da costituire un vero caso su cui riflettere. In maniera rovesciata questo scontro racconta infatti bene i limiti culturali di un establishment che ha vissuto sempre con gli occhi al di qua delle Alpi; e rivela anche quanto a lungo sia stato (stato?) maschile e mafioso il mondo giornalistico del nostro paese. Il tradizionale conflitto che i suoi lavori suscitano - tra immensa popolarità di vendite e l'establishment culturale - si è ripresentato, ma in maniera molto più drammatica, dopo l'11 settembre, con le sue ultime pubblicazioni, rudi, aggressive, sfacciate. Ha venduto come sempre milioni di copie, ma ha suscitato divisioni e critiche anche in un settore di pubblico , quello della sinistra e dei giovani, che l'aveva sempre guardata come un modello.

Il fatto è che il mondo che lei racconta nei suoi ultimi lavori, non ha nè «se» nè «ma». Era consapevole - e ferita anche se non lo avrebbe mai ammesso - delle critiche. Ma pensava fosse giusto soprattutto dire quello che pensava; soprattutto trovava un peccato la piaggeria, la compiacenza nei confronti degli altri. D'altra parte, questo era il metodo Fallaci: scontrarsi con ciò che a suo parere era un luogo comune. Che una volta questo attacco abbia preso di mira Henry Kissinger e poi il relativismo etico della sinistra, non è stato il segno di una sua evoluzione politica. E' stato semplicemente il modo di Oriana di esercitare il «mestiere delle armi».

di Lucia Annunziata da lastampa.it
 
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verbenasapiens
view post Posted on 17/9/2006, 07:42




Scandalo Orianadi Pierluigi Battista STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Oriana Fallaci studiava. Si documentava su ogni cosa con precisione meticolosa. Prima di incontrare i potenti della Terra da scorticare in duelli all’ultimo sangue, Oriana si preparava con ossessione quasi maniacale sull’interlocutore destinato al sacrificio dell’intervista.
Oriana Fallaci studiava e studiava. Chi fraintende l’essenza del fallacismo, riducendolo allo stereotipo del testimone impressionistico, del temerario inviato di guerra che stila il suo resoconto tra rombi di elicottero e fiumi di sangue, non ha nemmeno idea di quanto, e con quanta voracità, Oriana Fallaci studiasse e sudasse sulle carte. Nel suo Insciallah Oriana fa dire al personaggio del Professore: «Dietro ogni bagno di sangue chiamato rivoluzione c’è un libro, dietro ogni insania costituzionalizzata c’è un libro, dietro ogni violenza collettiva c’è un libro». Nel «secolo delle idee assassine», come lo ha definito Robert Conquest, Oriana Fallaci si consacrò alla descrizione degli assassini. Ma conosceva benissimo i teoremi e i deliri che, attraverso le pagine dei libri, incendiavano la mente dei grandi assassini della Storia. Altro che impressionismo. Oriana Fallaci non conosceva limiti. Si era gettata con tutta se stessa nell’avventura di giovane staffetta partigiana e nei suoi primi passi di giornalista a Firenze.
E si spese tutta intera nella stesura della sua ultima Apocalisse, ben sessant’anni dopo. Era totalizzante, intransigente, incapace di mediazioni e sfumature: viveva di assoluti. Aveva un carattere impossibile, ed è a questo eccesso temperamentale che viene imputata l’oceanica quantità di odi, rancori, ripulse velenose che ha nutrito l’esercito dei suoi innumerevoli detrattori, a ogni passo della sua carriera. Invece no, l’hanno sempre odiata, derisa, vilipesa perché Oriana era sola e voleva disperatamente restare sola e non farsi irretire dalle sirene dell’irreggimentazione culturale. È vero, c’era qualcosa di straordinariamente conturbante nella sua assoluta mancanza di senso del limite. Aveva la civetteria di dire che il suo direttore preferito era stato Franco Di Bella, perché quando Oriana arrivò a tarda ora nella redazione del Corriere con in mano la fluviale intervista all’ayatollah Khomeini, Di Bella non esitò un secondo a smantellare il giornale già impaginato per dare il massimo di luminosità (e di pagine) al grande scoop. Certo, solo con un gesto di così incondizionata venerazione si poteva far ingresso nell’empireo dei suoi direttori preferiti. Ma Oriana Fallaci era la più brava, la più tradotta, la più conosciuta nel mondo. Era lei che aggiungeva lustro a una testata prestigiosa come l’Europeo.
C’era lei a descrivere in modo impareggiabile il massacro di Piazza delle Tre Culture a Città del Messico, anno 1968, nella più cruenta delle vigilie olimpiche, quando fu ferita e la volevano portare all’obitorio perché sembrava morta. Andò a raccontare la guerra del Vietnam, tornandone come una delle reporter più famose del pianeta. Di quell’esperienza volle fissare «la grande emozione » in un libro, Niente e così sia, che seminò rotture e risentimenti nella comunità degli inviati in Vietnam. Andò come sarebbe sempre andata con i libri della Fallaci: il pubblico lo apprezzò, la suscettibile tribù dei giornalisti lo mise in isolamento, o lo dileggiò (e Giorgio Bocca chiamòOriana «Oliala»). Fu lei, in un incontro memorabile poi pubblicato in uno dei capitoli centrali della sua Intervista con la Storia, a far infuriare Henry Kissinger, il quale poi confessò che avrebbe voluto spaccarle il naso, a quella giornalista impertinente. Fu lei a narrare la celebre scena (una trovata letteraria geniale) del chador provocatoriamente gettato via al cospetto di un Khomeini allibito.Oa far capire al mondo l’irriducibilità del conflitto israeliano-palestinese attraverso i ritratti di Golda Meir e Yasser Arafat.
Il curriculum invidiabile di una scrittrice che amava la scrittura senza la leziosità degli scrittori alla moda e una giornalista che in cuor suo detestava, ricambiata, i salamelecchi delle liturgie giornalistiche. Oriana Fallaci era una donna. Una donna molto difficile. Uno dei suoi primi libri si intitolava Il sesso inutile.Ma tra le sue battaglie c’era anche quella della donna combattente immersa in un ambiente dove l’esser donna non solo è inutile, ma anche sciaguratamente dannoso: «Quando sei una donna, devi combattere di più». Quando Camilla Cederna tornò dalla Cina di Maoe scrisse estatica che nel paradiso della rivoluzione culturale non c’erano ladri né prostitute perché l’uomo nuovo maoista era buono e finalmente riconciliato con i ritmi della natura, Oriana Fallaci non si risparmiò nel colpire la celebre collega con una delle sue furenti invettive. Il mondo dei giornali, vedendo le due donne accapigliarsi, si divertì come davanti a una lite tra comari.
Il conflitto serio, quello non lo presero in considerazione. Ma alcuni accolsero sarcasticamente persino la storia di Alekos Panagulis, Un uomo (1979), insinuando e motteggiando che l’uomo in questione non fosse lui, ma lei. E non capirono, o le lessero come una parentesi divagatoria e intimistica, le pagine di Lettera a un bambino mai nato, il monologo che Oriana Fallaci aveva dedicato al (suo) dramma della maternità. Abortisti e antiabortisti se lo contesero, sebbene lei volesse sfuggire alla contesa. E non venne colto il filo segreto che congiungeva due libri tanto diversi e che invece si sarebbe imposto con evidenza, se solo non si fosse ignorato quel che pure Oriana Fallaci ha argomentato tante volte: «Ciò che davvero mi spinge a scrivere è lamia ossessione per la morte ». Oriana Fallaci, fiorentina ostinatamente innamorata di Firenze, aveva scelto New York come patria d’elezione. Unoceano di distanza, però, che non riusciva ad attutire l’eco di un’ostilità persistente e pregiudiziale diffusa in Italia come una malattia contagiosa.
La rabbia e l’orgoglio non c’entra, perché quel grumo risentito e antipatizzante per partito preso datava da molto, molto tempo prima che gli aerei dell’11 settembre devastassero le Torri gemelle e le vite di chi ci stava dentro, in quel mattino che cambiò il mondo e la Storia. Insciallah era uscito nel 1990, lo «scontro di civiltà» era lontano e la scrittura di Oriana Fallaci si scioglieva ancora lungo un registro narrativo in cui la «rabbia » sembrava un sentimento trattenuto e non straripante. Eppure l’autrice (anzi, per l’esattezza e per rispetto della sua testarda determinazione, lei scrisse «l’autore ») volle introdurre il romanzo dedicando «questa sua fatica ai quattrocento sol dati americani e francesi trucidati nel massacro di Beirut dalla setta Figli di Dio». Quel che c’era da vedere, nella prefigurazione dell’offensiva fondamentalista dell’islamismo, si poteva vedere anche con un certo, discreto anticipo. Bastava studiare, come faceva lei, e soprattutto non lasciarsi offuscare dal pregiudizio.
Eppure anche allora si radunò compatto il partito anti-Fallaci, variegato, multiforme, ma abilissimo nel fiutare le orme della Nemica, dell’Orchessa così volgarmente odiata da uno scrittore come Tahar Ben Jelloun da fargli dire che ogni riga fallaciana avesse origine in realtà da un irrisolto rapporto con «l’uomo». Nacque ben prima dell’11 settembre l’antifallacismo di maniera, che avrebbe voluto vedere la Fallaci scomparire dalla faccia della terra, ma che, senza volersi accorgere del paradosso, sull’icona negativa della Fallaci ha campato parassitariamente per anni. Anzi, in taluni casi, visto che il conformismo è molto remunerativo, per decenni. Oriana Fallaci era pugnace, ostinata, puntigliosa, litigiosa.
Chi l’ha conosciuta, e riusciva a entrare anche solo per poco nel cerchio magico della sua confidenza, poteva trovare in lei improvvisamente, e del tutto inaspettatamente, squarci di tenerezza che si imprimono nella memoria comemomenti fugaci prima della sua inesorabile esplosione d’ira, troppo totalitaria per non annientare ogni spiraglio di comunicazione con l’interlocutore. Amava l’omaggio galante di un mazzo di fiori, ma la sua indignazione non conosceva confini se malauguratamente si fosse trattato dei fiori sbagliati. Fumando senza tregua, anche quando il cancro sembrava mangiarsela rendendola sempre più sottile, era capace di scuotere chi gli stava di fronte con una corrente di emozione travolgente.
Ma solo se eri in grado di guadagnarti la sua fiducia. Se invece non ti dimostravi all’altezza, lei poteva annichilire tutto ciò che era stato raggiunto un attimo prima. Oriana Fallaci si sentiva braccata, odiata, vittima di un furore inspiegabile con le consuete categorie della diversità ideologica e della lontananza culturale. Ma si sentiva anche orgogliosa del fedele popolo di lettori che negli ultimi anni ne aveva fatto un idolo amatissimo. «Ho dato voce a tanta gente che non ne aveva», usava dire senza saper celare un moto di fierezza. «Non mi interessano i critici. Sono quasi sempre scrittori falliti e, di conseguenza, invidiosi e gelosi di chi scrive», scrisse replicando a uno degli attacchi più duri e violenti. Non era vero, rimuginava su ogni parola scagliata dai critici astiosi.
E se ne addolorava, malgrado il successo mondiale dei suoi libri, in tutte le lingue. «Su ogni esperienza personale lascio brandelli d’anima»: non è retorica letteraria, era la sua vita.

di Pierluigi Battista corriere.it

destino alleato STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Per quelle coincidenze apparentemente fortuite ma che racchiudono chissà come un segno del destino, la morte di Oriana ha coinciso con l’esplodere della nuova «guerra santa» islamica scatenata contro il Papa.

Quasi una tragica testimonianza della veridicità della denuncia, sonora e inappellabile, dell'incompatibilità di questo islam e di questi musulmani con la civiltà e l'umanità dell' Occidente. Che Oriana aveva assunto come fede e missione da diffondere ovunque nel mondo nell'ultima fase della sua esistenza terrena profondamente segnata dal trauma dell'11 settembre, vissuto in prima persona dalla sua abitazione newyorkese. E che nel giorno dell' addio si conferma come un dato di fatto con cui, piaccia o meno, tutti noi dobbiamo fare i conti.
E' come se una misteriosa giustizia trascendentale, lei che si professava atea di cultura cristiana, avesse voluto premiarla con un'onorificenza indelebile, riscattando in extremis il suo messaggio dalla pesante cappa di diffamazione e condanna sotto cui giaceva, per presentarcelo in una luce a tal punto fulgida, da disarmare e mettere fuori gioco tutti i suoi critici e oppositori.
Perché oggi più che mai possiamo toccare con mano la realtà dell' Eurabia, contro cui si era lungamente spesa Oriana, ovvero di un'Europa a tal punto infiltrata e soggiogata dagli interessi e dall'avanzata degli estremisti islamici, da non essere più in grado di risollevarsi, di reagire, di affermare i propri valori e la propria identità collettiva.
Perché oggi più che mai appare con grande evidenza la fragilità, per non dire l'inconsistenza, del mito dell'islam e dei musulmani «moderati», una realtà che evapora e si dissolve nel momento in cui i «duri e puri» suonano la chiamata alle armi per combattere il nemico dell'islam di turno, ora tocca a Benedetto XVI, compattando un fronte che nel suo apparente monolitismo non lascia spazio alcuno alla distinzione tra le posizioni degli uni e degli altri, legittimando la condanna indiscriminata dell'insieme dell'islam e dei musulmani.
Una drastica conclusione a cui Oriana era pervenuta nella solitudine a cui, per un verso, l'aveva costretta l'implacabile malattia e, per l'altro, probabilmente motivata da una sua remora a confrontarsi direttamente con interlocutori in carne ed ossa che avrebbero potuto contraddirla, costringerla a ripensare le sue certezze e demolire dei costrutti mentali su cui aveva elaborato i suoi recenti saggi venduti a milioni di copie in tutto il mondo. I musulmani che Oriana aveva conosciuto appartenevano alle realtà conflittuali del Medio Oriente.
Le sue interviste con Yasser Arafat, che lei disprezzava apertamente, e con Khomeini, che sfidò togliendosi il velo in sua presenza, sono diventati dei classici per gli studiosi della materia. Ma, più o meno nell'ultimo decennio, il rapporto di Oriana con i musulmani era mediato dai mass media, dalle sequenze televisive e i resoconti giornalistici. Ciò che ha inevitabilmente condizionato la sua percezione, finendo per riprodurre in lei l'immagine di un homo islamicus appiattito su una certa interpretazione del Corano e legato a stereotipi e luoghi comuni. Al punto che Oriana rifuggiva, forse istintivamente, dal rapporto vero con quei musulmani che non corrispondevano al cliché su cui si reggeva la sua tesi generalizzante e criminalizzante l'insieme dell'islam e, di conseguenza, dei musulmani. Il punto debole, che è al contempo il punto cruciale, del pensiero di Oriana, è l'assenza della conoscenza diretta e dall'interno dell'«altro».
Ecco perché la visione di Oriana può risultare oggi assolutamente veritiera e congrua, ma al tempo stesso potrebbe rivelarsi domani dubbia e faziosa. La sua fotografia della realtà odierna è apparentemente corretta e ineccepibile. Ma potrebbe dimostrarsi un unico fotogramma, che potrebbe non corrispondere all'evoluzione degli eventi. La sua rappresentazione della malattia dell'Occidente nei confronti dell' islam continua a trovare un riscontro oggettivo.
Ma è la diagnosi e soprattutto la terapia che non convincono, che risultano non praticabili perché non salverebbero l'Occidente ma rischierebbero di portare alla morte globalizzata dell'umanità. Ebbene la storia probabilmente riconoscerà a Oriana il merito di aver avuto ragione nella sua denuncia della radice del male del nostro secolo, ma tutti noi sappiamo che la nostra sopravvivenza sarà garantita solo se riusciremo a condividere i valori fondanti della nostra umanità, nel rispetto della diversità religiosa.
Magdi Allam

ilcorriere.it

Il nemico che trattiamo da amico L'Europa in guerra il nemico ce l'ha in casa. E Churchill disse: verseremo lacrime e sangue STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos' altro devo dire?!? Sono quattr' anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr' anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all' Occidente, di culto della morte, di suicidio dell' Europa. Un' Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr' anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell' Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr' anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell' Apocalisse dell' evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.
Incominciai con «La Rabbia e l' Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L' Apocalisse». E tra l' uno e l' altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l' accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l' accusa di vilipendio all' Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l' islamico sorpreso con l' esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia-di-destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all' Occidente, Culto-della-Morte, Suicidio-dell' Europa, Sveglia-Italia-Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l' ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi-terroristi-vogliono-distruggere-i-nostri-valori, che questo- stragismo-è-di-tipo-fascista-ed-esprime-odio-per-la-nostra-civiltà».
Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all' apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un' altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla. Nulla. Dall' antiamericanismo all' antioccidentalismo al filoislamismo, tutto continua come prima. Persino in Inghilterra. Sabato 9 luglio cioè due giorni dopo la strage la BBC ha deciso di non usare più il termine «terroristi», termine-che-esaspera-i-toni-della-Crociata, ed ha scelto il vocabolo «bombers». Bombardieri, bombaroli. Lunedì 11 luglio cioé quattro giorni dopo la strage il Times ha pubblicato nella pagina dei commenti la vignetta più disonesta ed ingiusta ch' io abbia mai visto. Quella dove accanto a un kamikaze con la bomba si vede un generale anglo-americano con un' identica bomba. Identica nella forma e nella misura. Sulla bomba, la scritta: «Killer indiscriminato e diretto ai centri urbani». Sulla vignetta, il titolo: «Spot the difference, cerca la differenza».
Quasi contemporaneamente, alla televisione americana ho visto una giornalista del Guardian, il quotidiano dell' estrema sinistra inglese, che assolveva l' apologia di reato manifestata anche stavolta dai giornali musulmani di Londra. E che in pratica attribuiva la colpa di tutto a Bush. Il-criminale, il- più-grande-criminale-della-Storia, George W. Bush. «Bisogna capirli». Cinguettava «la politica americana li ha esasperati. Se non ci fosse stata la guerra in Iraq...». (Giovanotta, l' 11 settembre la guerra in Iraq non c' era. L' 11 settembre la guerra ce l' hanno dichiarata loro. Se n' è dimenticata?). E contemporaneamente ho letto su Repubblica un articolo dove si sosteneva che l' attacco alla subway di Londra non è stato un attacco all' Occidente. E' stato un attacco che i figli di Allah hanno fatto contro i propri fantasmi. Contro l' Islam «lussurioso» (suppongo che voglia dire «occidentalizzato») e il cristianesimo «secolarizzato». Contro i pacifisti indù e la-magnifica-varietà-che-Allah-ha-creato. Infatti, spiegava, in Inghilterra i musulmani sono due milioni e nella metropolitana di Londra non-trovi-un-inglese-nemmeno-a-pagarlo-oro. Tutti in turbante, tutti in kefiah. Tutti con la barba lunga e il djellabah. Se-ci-trovi-una-bionda-con-gli-occhi-azzurri-è-una-circassa». (Davvero?!? Chi l' avrebbe mai detto!!! Nelle fotografie dei feriti non scorgo né turbanti né kefiah, né barbe lunghe né djellabah. E nemmeno burka e chador. Vedo soltanto inglesi come gli inglesi che nella Seconda Guerra Mondiale morivano sotto i bombardamenti nazisti. E leggendo i nomi dei dispersi vedo tutti Phil Russell, Adrian Johnson, Miriam Hyman, più qualche tedesco o italiano o giapponese. Di nomi arabi, finoggi, ho visto soltanto quello di una giovane donna che si chiamava Shahara Akter Islam).
Continua anche la fandonia dell' Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell' integrazione, la farsa del pluriculturalismo. Vale a dire delle moschee che esigono e che noi gli costruiamo. Nel corso d' un dibattito sul terrorismo, al consiglio comunale di Firenze lunedì 11 luglio il capogruppo diessino ha dichiarato: «E' ora che anche a Firenze ci sia una moschea». Poi ha detto che la comunità islamica ha esternato da tempo la volontà di costruire una moschea e un centro culturale islamico simili alla moschea e al centro culturale islamico che sorgeranno nella diessina Colle val d' Elsa. Provincia della diessina Siena e del suo filo-diessino Monte dei Paschi, già la banca del Pci e ora dei Ds. Bé, quasi nessuno si è opposto. Il capogruppo della Margherita si è detto addirittura favorevole. Quasi tutti hanno applaudito la proposta di contribuire all' impresa coi soldi del municipio cioé dei cittadini, e l' assessore all' urbanistica ha aggiunto che da un punto di vista urbanistico non ci sono problemi. «Niente di più facile». Episodio dal quale deduci che la città di Dante e Michelangelo e Leonardo, la culla dell' arte e della cultura rinascimentale, sarà presto deturpata e ridicolizzata dalla sua Mecca. Peggio ancora: continua la Political Correctness dei magistrati sempre pronti a mandare in galera me e intanto ad assolvere i figli di Allah. A vietarne l' espulsione, ad annullarne le (rare) condanne pesanti, nonché a tormentare i carabinieri o i poliziotti che con loro gran dispiacere li arrestano. Milano, pomeriggio dell' 8 luglio cioé il giorno dopo la strage di Londra. Il quarantaduenne Mohammed Siliman Sabri Saadi, egiziano e clandestino, viene colto senza biglietto sull' autobus della linea 54. Per effettuare la multa i due controllori lo fanno scendere e scendono con lui. Gli chiedono un documento, lui reagisce ingaggiando una colluttazione. Ne ferisce uno che finirà all' ospedale, scappa perdendo il passaporto, ma la Volante lo ritrova e lo blocca. Nonostante le sue resistenze, dinanzi a una piccola folla lo ammanetta e nello stesso momento ecco passare una signora che tutta stizzita vuole essere ascoltata come testimone se il poverino verrà processato ed accusato di resistenza. I poliziotti le rispondono signora-ci-lasci-lavorare, e allora lei allunga una carta di identità dalla quale risulta che è un magistrato. Sicché un po' imbarazzati ne prendono atto poi portano Mohammed in questura e qui... Bé, invece di portarlo al centro di permanenza temporanea dove (anziché in galera) si mettono i clandestini, lo lasciano andare invitandolo a presentarsi la prossima settimana al processo cui dovrà sottoporsi per resistenza all' arresto e lesioni a pubblico ufficiale. Lui se ne va, scompare (lo vedremo mai più?) e indovina chi è la signora tutta stizzita perché lo avevano ammanettato come vuole la prassi.
La magistrata che sette mesi fa ebbe il suo piccolo momento di celebrità per aver assolto con formula piena tre musulmani accusati di terrorismo internazionale e per aver aggiunto che in Iraq non c' è il terrorismo, c' è la guerriglia, che insomma i tagliateste sono Resistenti. Sì, proprio quella che il vivace leghista Borghezio definì «una vergogna per Milano e per la magistratura». E indovina chi anche oggi la loda, la difende, dichiara ha-fatto-benissimo. I diessini, i comunisti, e i soliti verdi. Continua anche la panzana che l' Islam è una religione di pace, che il Corano predica la misericordia e l' amore e la pietà. Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d' ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli. Continua anche la frottola dell' Islam vittima-dell' Occidente. Come se per quattordici secoli i musulmani non avessero mai torto un capello a nessuno e la Spagna e la Sicilia e il Nord Africa e la Grecia e i Balcani e l' Europa orientale su su fino all' Ucraina e alla Russia le avesse occupate la mia bisnonna valdese. Come se ad arrivare fino a Vienna e a metterla sotto assedio fossero state le suore di sant' Ambrogio e le monache Benedettine. Continua anche la frode o l' illusione dell' Islam Moderato. Con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un' esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani.
Bé, il nemico non è affatto un' esigua minoranza. E ce l' abbiamo in casa. Ce l' avevamo in casa l' 11 settembre del 2001 cioé a New York. Ce l' avevamo in casa l' 11 marzo del 2004 cioé a Madrid. Ce l' avevamo in casa l' 1, il 2, il 3 settembre del medesimo anno a Beslan dove si divertirono anche a fare il tiro a segno sui bambini che dalla scuola fuggivano terrorizzati, e di bambini ne uccisero centocinquanta. Ce l' avevamo in casa il 7 luglio scorso cioé a Londra dove i kamikaze identificati erano nati e cresciuti. Dove avevano studiato finalmente qualcosa, erano vissuti finalmente in un mondo civile, e dove fino alla sera precedente s' eran divertiti con le partite di calcio o di cricket. Ce l' abbiamo in casa da oltre trent' anni, perdio. Ed è un nemico che a colpo d' occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all' occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente-inserito-nel-nostro-sistema-sociale. Cioé col permesso di soggiorno. Con l' automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. E' un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Tale intensità che verrebbe spontaneo gridargli: se siamo così brutti, così cattivi, così peccaminosi, perché non te ne torni a casa tua? Perché stai qui? Per tagliarci la gola o farci saltare in aria? Un nemico, inoltre, che in nome dell' umanitarismo e dell' asilo politico (ma quale asilo politico, quali motivi politici?) accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l' Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che per partorire non ha bisogno della procreazione assistita, delle cellule staminali. Il suo tasso di natalità è così alto che secondo il National Intelligence Council alla fine di quest' anno la popolazione musulmana in Eurabia risulterà raddoppiata. Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all' imam (però guai se arresti l' imam.
Peggio ancora, se qualche agente della Cia te lo toglie dai piedi col tacito consenso dei nostri servizi segreti). Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l' Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l' esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca. (Ma quando in seguito alla strage di Londra la Francia denuncia il trattato di Schengen e perfino la Spagna zapatera pensa di imitarla, l' Italia e gli altri paesi europei rispondono scandalizzati no no). Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l' alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che protetto dalla Sinistra al Caviale e dalla Destra al Fois Gras e dal Centro al Prosciutto ciancia, appunto, di integrazione e pluriculturalismo ma intanto ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioé «col liquore». E-attenta-a-non-ripeter-l' oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». (Parlo, s' intende, dell' arabo con la cittadinanza italiana che mi ha denunciato per vilipendio all' Islam. Che contro di me ha scritto un lercio e sgrammaticato libello dove elencando quattro sure del Corano chiede ai suoi correligionari di eliminarmi, che per le sue malefatte non è mai stato o non ancora processato). Un nemico che in Inghilterra s' imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. (Parlo, s' intende, dell' arabo con la cittadinanza inglese che per puro miracolo beccarono sulla American Airlines).
Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. (Parlo, s' intende, dell' arabo con cittadinanza olandese che probabilmente anzi spero verrà condannato all' ergastolo e che al processo ha sibilato alla mamma di Theo: «Io non provo alcuna pietà per lei. Perché lei è un' infedele»). Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioé pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d' un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino. Continua anche il discorso sul Dialogo delle due Civiltà. Ed apriti cielo se chiedi qual è l' altra civiltà, cosa c' è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell' Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell' Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall' Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c' è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta.
L' Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà. E visto che ho toccato questo argomento mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all' Islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al Cristianesimo. Nonché per istigazione all' omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l' esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato Italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro degli Interni dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia. (Quanto a voi, signori del Parlamento, congratulazioni per aver respinto la proposta del ministro della Giustizia: abolire il reato di opinione. E particolari congratulazioni all' onorevole di Alleanza Nazionale che oltre ad aver gestito quel rifiuto ha chiesto di abolire il reato d' apologia del fascismo). Continua anche l' indulgenza che la Chiesa Cattolica (del resto la maggiore sostenitrice del Dialogo) professa nei riguardi dell' Islam. Continua cioé la sua irremovibile irriducibile volontà di sottolineare il «comune patrimonio spirituale fornitoci dalle tre grandi religioni monoteistiche». Quella cristiana, quella ebraica, quella islamica. Tutte e tre basate sul concetto del Dio Unico, tutte e tre ispirate da Abramo. Il buon Abramo che per ubbidire a Dio stava per sgozzare il suo bambino come un agnello. Ma quale patrimonio in comune?!?
Allah non ha nulla in comune col Dio del Cristianesimo. Col Dio padre, il Dio buono, il Dio affettuoso che predica l' amore e il perdono. Il Dio che negli uomini vede i suoi figli. Allah è un Dio padrone, un Dio tiranno. Un Dio che negli uomini vede i suoi sudditi anzi i suoi schiavi. Un Dio che invece dell' amore insegna l' odio, che attraverso il Corano chiama cani-infedeli coloro che credono in un altro Dio e ordina di punirli. Di soggiogarli, di ammazzarli. Quindi come si fa a mettere sullo stesso piano il cristianesimo e l' islamismo, come si fa a onorare in egual modo Gesù e Maometto?!? Basta davvero la faccenda del Dio Unico per stabilire una concordia di concetti, di principii, di valori?!? E questo è il punto che nell' immutata realtà del dopo-strage di Londra mi turba forse di più. Mi turba anche perché sposa quindi rinforza quello che considero l' errore commesso da papa Wojtyla: non battersi quanto avrebbe a mio avviso dovuto contro l' essenza illiberale e antidemocratica anzi crudele dell' Islam. Io in questi quattr' anni non ho fatto che domandarmi perché un guerriero come Wojtyla, un leader che come lui aveva contribuito più di chiunque al crollo dell' impero sovietico e quindi del comunismo, si mostrasse così debole verso un malanno peggiore dell' impero sovietico e del comunismo. Un malanno che anzitutto mira alla distruzione del cristianesimo. (E dell' ebraismo). Non ho fatto che domandarmi perché egli non tuonasse in maniera aperta contro ciò che avveniva (avviene) ad esempio in Sudan dove il regime fondamentalista esercitava (esercita) la schiavitù. Dove i cristiani venivano eliminati (vengono eliminati) a milioni. Perché tacesse sull' Arabia Saudita dove la gente con una Bibbia in mano o una crocetta al collo era (è) trattata come feccia da giustiziare. Ancora oggi quel silenzio io non l' ho capito e...
Naturalmente capisco che la filosofia della Chiesa Cattolica si basa sull' ecumenismo e sul comandamento Ama-il-nemico-tuo-come-te-stesso. Che uno dei suoi principii fondamentali è almeno teoricamente il perdono, il sacrificio di porgere l' altra guancia. (Sacrificio che rifiuto non solo per orgoglio cioè per il mio modo di intendere la dignità, ma perché lo ritengo un incentivo al Male di chi fa del male). Però esiste anche il principio dell' autodifesa anzi della legittima difesa, e se non sbaglio la Chiesa Cattolica vi ha fatto ricorso più volte. Carlo Martello respinse gli invasori musulmani alzando il crocifisso. Isabella di Castiglia li cacciò dalla Spagna facendo lo stesso. E a Lepanto c' erano anche le truppe pontificie. A difendere Vienna, ultimo baluardo della Cristianità, a romper l' assedio di Kara Mustafa, c' era anche e soprattutto il polacco Giovanni Sobienski con l' immagine della Vergine di Chestochowa. E se quei cattolici non avessero applicato il principio dell' autodifesa, della legittima difesa, oggi anche noi porteremmo il burka o il jalabah. Anche noi chiameremmo i pochi superstiti cani-infedeli. Anche noi gli segheremmo la testa col coltello halal. E la basilica di San Pietro sarebbe una moschea come la chiesa di Santa Sofia a Istanbul. Peggio: in Vaticano ci starebbero Bin Laden e Zarkawi. Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l' intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? Lei è un uomo tanto erudito, Santità. Tanto colto. E li conosce bene. Assai meglio di me. Mi spieghi dunque: quando mai nel corso della loro storia, una storia che dura da millequattrocento anni, sono cambiati e si sono ravveduti? Oh, neanche noi siamo stati e siamo stinchi di santo: d' accordo. Inquisizioni, defenestrazioni, esecuzioni, guerre, infamie di ogni tipo. Nonché guelfi e ghibellini a non finire. E per giudicarci severamente basta pensare a quel che abbiamo combinato sessanta anni fa con l' Olocausto. Ma poi abbiamo messo un po' di giudizio, perbacco. Ci abbiamo dato una pensata e se non altro in nome della decenza siamo un po' migliorati. Loro, no.
La Chiesa Cattolica ha avuto svolte storiche, Santità. Anche questo lei lo sa meglio di me. A un certo punto si è ricordata che Cristo predicava la Ragione, quindi la scelta, quindi il Bene, quindi la Libertà, e ha smesso di tiranneggiare. D' ammazzare la gente. O costringerla a dipinger soltanto Cristi e Madonne. Ha compreso il laicismo. Grazie a uomini di prim' ordine, un lungo elenco di cui Lei fa parte, ha dato una mano alla democrazia. Ed oggi parla coi tipi come me. Li accetta e lungi dal bruciarli vivi (io non dimentico mai che fino a quattro secoli fa il Sant' Uffizio mi avrebbe mandato al rogo) ne rispetta le idee. Loro, no. Ergo con loro non si può dialogare. E ciò non significa ch' io voglia promuovere una guerra di religione, una Crociata, una caccia alle streghe, come sostengono i mentecatti e i cialtroni. (Guerre di religione, Crociate, io ?!? Non essendo religiosa, figuriamoci se voglio incitare alle guerre di religione e alle Crociate. Cacce alle streghe io?!? Essendo considerata una strega, un' eretica, dagli stessi laici e dagli stessi liberals, figuriamoci se voglio accendere una caccia alle streghe. Ciò significa, semplicemente, che illudersi su di loro è contro ragione. Contro la Vita, contro la stessa sopravvivenza, e guai a concedergli certe familiarità.
La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l' ho mai avuto. Anche questo lo dico da quattro anni. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all' Africa cioè ai paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Lo stesso Bin Laden ce lo ha promesso. In modo esplicito, chiaro, preciso. Più volte. I suoi luogotenenti (o rivali), idem. Lo stesso Corriere lo dimostra con l' intervista a Saad Al-Faqih, l' esiliato saudita diventato amico di Bin Laden durante il conflitto coi russi in Afghanistan, e secondo i servizi segreti americani finanziatore di Al Qaeda. «E' solo questione di tempo. Al Qaeda vi colpirà presto» ha detto Al-Faqih aggiungendo che l' attacco all' Italia è la cosa più logica del mondo. Non è l' Italia l' anello più debole della catena composta dagli alleati in Iraq? Un anello che viene subito dopo la Spagna e che è stato preceduto da Londra per pura convenienza. E poi: «Bin Laden ricorda bene le parole del Profeta. Voi-costringerete-i-romani-alla-resa. E vuole costringer l' Italia ad abbandonare l' alleanza con l' America». Infine, sottolineando che operazioni simili non si fanno appena sbarcati a Lampedusa o alla Malpensa bensì dopo aver maturato dimestichezza con il paese, esser penetrati nel suo tessuto sociale: «Per reclutare gli autori materiali, c' è solo l' imbarazzo della scelta».
Molti italiani non ci credono ancora. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli Interni, a rischio Roma e Milano, all' erta anche Torino e Napoli e Trieste e Treviso nonché le città d' arte come Firenze e Venezia, gli italiani si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi. Ha ragione Vittorio Feltri quando su Libero scrive che la decadenza degli occidentali si identifica con la loro illusione di poter trattare amichevolmente il nemico, nonché con la loro paura. Una paura che li induce ad ospitare docilmente il nemico, a tentar di conquistarne la simpatia, a sperare che si lasci assorbire mentre è lui che vuole assorbire. Questo senza contare la nostra abitudine ad essere invasi, umiliati, traditi. Come dico nell' «Apocalisse», l' abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L' apatia genera inerzia. L' inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l' indifferenza soffoca l' istinto di autodifesa cioè l' istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d' essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall' apatia, dall' inerzia, dall' indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che per non perdere la Libertà a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l' autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d' essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l' attacco verrà, udiremo le consuete scemenze. Colpa-degli-americani, colpa-di-Bush.
Quando verrà, come avverrà quell'attacco? Oddio, detesto fare la Cassandra. La profetessa. Non sono una Cassandra, non sono una profetessa. Sono soltanto un cittadino che ragiona e ragionando prevede cose che secondo logica accadranno. Ma che ogni volta spera di sbagliarsi e, quando accadono, si maledice per non aver sbagliato. Tuttavia riguardo all' attacco contro l' Italia temo due cose: il Natale e le elezioni. Forse supereremo il Natale. I loro attentati non sono colpacci rozzi, grossolani. Sono delitti raffinati, ben calcolati e ben preparati. Prepararsi richiede tempo e a Natale credo che non saranno pronti. Però saranno pronti per le elezioni del 2006. Le elezioni che vogliono vedere vinte dal pacifismo a senso unico. E da noi, temo, non si accontenteranno di massacrare la gente. Perché quello è un Mostro intelligente, informato, cari miei. Un Mostro che (a nostre spese) ha studiato nelle università, nei collegi rinomati, nelle scuole di lusso. (Coi soldi del genitore sceicco od onesto operaio). Un Mostro che non s' intende soltanto di dinamica, chimica, fisica, di aerei e treni e metropolitane: s' intende anche di Arte. L' arte che il loro presunto Faro-di-Civiltà non ha mai saputo produrre. E penso che insieme alla gente da noi vogliano massacrare anche qualche opera d' arte. Che ci vuole a far saltare in aria il Duomo di Milano o la Basilica di San Pietro? Che ci vuole a far saltare in aria il David di Michelangelo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio a Firenze, o il Palazzo dei Dogi a Venezia? Che ci vuole a far saltare in aria la Torre di Pisa, monumento conosciuto in ogni angolo del mondo e perciò assai più famoso delle due Torri Gemelle? Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta. Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.
Oriana Fallaci

dailcorriere.it

Come al fronte
di Piero Ostellino STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Se ne è andata come era vissuta negli ultimi vent’anni, una volta lasciato il giornalismo attivo. In solitudine, avendo il mondo in gran dispetto, analogamente a un’altra grande protagonista del Novecento, Greta Garbo. Mal’ossessiva, maniacale difesa della propria privatezza non era, per lei, un vezzo. Nascondeva sentimenti più profondi. Sembrava sfrontata, ed era timidissima. Appariva aggressiva, ed era vulnerabile. Risultava apodittica, ed era insicura. Nelle rare e sempre più sporadiche amicizie—come, credo, in amore— aveva cercato un rifugio alla timidezza, una protezione alla vulnerabilità, un sostegno all’insicurezza. Dava, con controllata pudicizia, molto più di quanto ci si potesse aspettare da una personalità così complessa e da un Ego manifestamente ipertrofico. Ma pretendeva moltissimo, con goloso esclusivismo, restando costantemente sul crinale della rottura.
Che era per lei la misura ultima della propria indipendenza, la via di fuga dal compromesso che comporta l’accettazione dell’altro. Rigorosa fino all’ossessione, non c’è articolo, libro, conferenza che non abbia scritto e riscritto più e più volte, alla ricerca, lei così profondamente toscana, delle parole e delle espressioni più fedeli alla nostra (la sua) bella lingua. Mai dichiarandosene soddisfatta. Neppure per la stesura finale. Che, rompendo una prassi di totale, impenetrabile riservatezza sul proprio lavoro, leggeva, con trepidazione, solo ai pochi, pochissimi del cui giudizio riteneva di potersi fidare e sentirsi rassicurata. È stata, nell’arco di una vita professionale ricca di riconoscimenti e di soddisfazioni, una grande, grandissima giornalista, insuperabile cronista di guerre e disincantata intervistatrice di uomini e donne celebri; un’autrice di libri prolifica e intensa, testimone attenta della Storia, ma anche, con sincerità, della propria stessa vita intima e dei propri sentimenti più profondi; infine, dopo l’11 settembre, da polemista, si era gettata in quello che riteneva un insanabile «conflitto di civiltà», ma anche la sua ultima battaglia, con radicale passionalità. Siamo stati amici per trent’anni.
C’eravamo conosciuti lungo i corridoi del Corriere della Sera negli anni in cui ero corrispondente da Mosca. Fra un’imprecazione e l’altra contro l’amministratore delegato che aveva appena incontrato e che non le era palesemente piaciuto, mi aveva detto, con simpatia, di apprezzare i miei articoli. Poi ci eravamo rivisti a Pechino dove, nel frattempo, mi ero trasferito e lei era arrivata per intervistare Deng Xiaoping. Questa volta, le era piaciuto che, a differenza di quanto accade spesso nel nostro mestiere, io non mi fossi lamentato della sua intrusione nella mia «sfera di influenza» di corrispondente locale. Anzi. Infine, da direttore, le avevo chiesto di riprendere la sua collaborazione al Corriere. E la nostra amicizia si era ulteriormente consolidata negli anni successivi. Abituata a prendere la vita di petto, mal sopportava, però, la mia inclinazione a ironizzare su tutto. Ciò che per meè disincanto, per lei era disimpegno.
Quando aveva scoperto che, fidandomi dei bravi redattori della Rizzoli, non avevo neppure letto le bozze del mio ultimo libro (dal quale era malauguratamente «saltato» un passo che la riguardava) e avevo replicato alla sua scenataccia di non essere portato a prendermi troppo sul serio, si era sentita tradita e aveva troncato ogni rapporto. Cara Oriana, so già che, da dove sei, mi manderai al diavolo. Ma questo ricordo della nostra amicizia e del tuo caratteraccio te lo dovevo. Con tanto magone. E la solita, maledettissima ironia.
di Piero Ostellino da corriere.it

Kissinger al tappetodi Gianni Riotta STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
«Vuoi venire a sentire la Fallaci? Parla alla Columbia University. Costa sette dollari, ma ho un biglietto se vuoi». L’offerta della mia compagna alla scuola di giornalismo mi colpì perché la conferenza della scrittrice italiana era subito andata esaurita. E allora sette dollari compravano pranzo per una settimana su Broadway per studenti e intellettuali bohemien. Qualche anno dopo, quando era direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Manhattan, Furio Colombo decise di invitare le stelle a parlare in diretta, lunga attesa per Umberto Eco, pigia pigia per Susan Sontag,ma quando, in quella che fu forse l’ultima sua apparizione pubblica in città, toccò ad Oriana Fallaci la fila si allungò lungo gli isolati di Park Avenue.
Perché gli americani adoravano Oriana, agli americani raccontò del cancro, che riteneva aver contratto per l’esposizione ai fumi del greggio, nella prima guerra del Golfo, agli americani aveva affidato, rognando, brontolando, protestando, urlando, sbattendo il telefono, la propria vita. L’amavano perché, con la sua aria dolce da tigre bionda con la sigaretta in bocca, aveva divorato il segretario di stato Henry Kissinger, il più astuto, machiavellico, bismarckiano, diplomatico del XX secolo. Che cosa aveva negli occhi quell’italiana, che fluido trasmetteva, per avere persuaso il segretario di stato di Richard Nixon a dichiararle che sì, lui si sentiva come un cow boy che va in avanscoperta con la carovana, il cavaliere che va da solo in città? Quell’intervista è da allora di testo nelle scuole di giornalismo. Kissinger provò a smentirla, Oriana tirò fuori un nastro, Mike Wallace, il suo amico e stella della rete tv Cbs, volle farlo ascoltare in diretta, il tono gutturale tedesco di Kissinger venne fuori distorto, polemiche, urla, smentite ma la vinse Oriana.
Con Mao Kissinger se l’era cavata, con Zhou En Lai non aveva avuto problemi, con Breznev, il vietnamita Le Duc Tho e alla Casa Bianca col cinico Nixon aveva regnato. Oriana l’aveva smontato e ce l’ha fatto vedere come forse è, come nessuno saprà mai più. «Fu l’incontro più disastroso con un giornalista della mia vita» scrisse Kissinger nelle sue memorie e, viaggiando con l’avvocato Agnelli verso un vertice, molti anni dopo, smussava l’ironia dell’ospite masticando fosco tramezzini al salmone. Oriana Fallaci affolla le biblioteche dei colleges con i suoi volumi perché generazioni di cronisti yankee vogliono sapere come ha fatto a trovare l’ayatollah Khomeini, l’uomo più bello incontrato nella sua vita, a prendere le pallottole sulla Piazza delle Tre Culture a Città del Messico nel 1968, a viaggiare in Vietnam, nel mondo, senza mai perdere la cicca all’angolo della bocca e il fascino da maledetta fiorentina.
Adorano e ammirano Oriana perché lei era tutto quello che vorrebbero essere e stentano a diventare, elegante e cinica, efficiente e romantica, colta e popolare, star e cronista. La sua casa sulla Upper East Side (avessi scritto l’indirizzo lei viva domani sarei stato scorticato) ha la scala accanto a quella di un altro colosso del giornalismo italiano, il suo amico Ugo Stille, e quando noi ragazzini reporter passavamo su quel marciapiede incantato sognavamo. Ma la sua casa Oriana l’apriva anche con generosità, casa zeppa di libri, casa zeppa di mozziconi e versava vino bianco e chiacchierava e urlava e sbatteva i pugni sul tavolo e chiedeva al collega inerme perché mai non si ribellasse contro il direttore e non lo mandasse aff... e perché quel trombone di XYancora ammorbava i giornali e quel cretino ignorante di YZ ancora appestava con i suoi fondi.
Oriana aveva la stanza più bella al sesto piano dell’Ufficio Rizzoli della Cinquantasettesima strada, la via più intellettuale di New York. Grandi vetri, grande tavolo, un segretario o una segretaria che duravano poche settimane, perché Oriana li consumava a urla, ordini, preghiere, seducendoli, affascinandoli, istruendoli. Poi tutti raccontavano l’esperienza come un sogno e quando li incontrava per strada la Fallaci li salutava come una regina che si degna di ricordare uno scudiero del passato. Uno di loro sta scrivendo un libro, in tutta fretta. Dirà che Oriana era, anche, generosa? Che prima di travolgere il malcapitato con la sua furia, chiedendogli di essere come lei, di vivere in proporzioni epiche — elogiando il romanzo «Inshallah» per la Repubblica, il suo amico Bernardo Valli disse che Oriana era persona di dimensioni omeriche—era capace di dare suggerimenti, chiedere libri, ascoltare curiosa.
Sapeva che in Italia la critica l’aveva decretata «low brow», popolare, detestava la sua scrittura. E non è vero che non le importava, anzi: si inquietava e chiedeva conferma e si interrogava perché, lei che era la più grande, non ricevesse elogi nell’accademia. Non lo chiedeva agli amici famosi, Stille, Colombo, il concittadino Vanni Sartori, adorato e poi detestato, e poi detestato e poi adorato, ma sempre considerato uno degli «happy few» alla sua altezza. No: Oriana chiedeva, come i veri talenti, conferma di sé, ai semplici, ai debuttanti. Alla Rizzoli non era una firma, era un mito. I manager dovevano chiamarla e fare anticamera, i direttori pregare per una telefonata. Quando arrivai inviato da Stille nel vecchio ufficio davanti alla stazione, non c’era neppure un bugigattolo, vecchie storie di nonnismo.
Vidi però una stanza piena di scatoloni, con una stupenda finestra davanti al ponte sull’East River. E accanto un bugigattolo vuoto. Chiesi di spostare le casse nel ripostiglio ma mi intimarono di non farlo «Questo è il deposito di Fallaci». La sera, quando tutti andarono via spostai le scatolone e lasciai una lettera a Oriana, certo che avrebbe compreso che la finestra serviva più ad una persona che al cartone. «Sei morto» dissero tutti, ma Oriana non aveva nulla di piccino, nulla. E durante la prima guerra del Golfo, vide che studiavamo sulle grandi carte dell’esercito, Kuwait e Iraq. Prese a passare ogni pomeriggio per calcolare con noi armi, strategie, passaggi. Poi se ne andò al fronte invisibile e fece l’unico scoop del conflitto, un volo su un ricognitore.
Ma all’ufficiale che le aveva promesso la prima linea e la tradì riservò un trattamento Oriana: tempestando di pugni e colpi di tacco la porta d’hotel del fedifrago. Oriana si considerava una donna di sinistra, sinistra fallaciana, democratica, tendenza fallaciana.E quando il New Yorker, la rivista radicale, la intervista sui suoi attacchi radicali all’Islam, ripete le tesi sull’emigrazione cavallo di Troia di Osama, ma poi mostra con orgoglio un ritaglio della Stampa, con il reportage che scopre come aTeheran le femministe dissidenti leggano la Oriana, la sola capace di non avere paura reverenziale di Khomeini. La inorgogliva la popolarità clandestina in Iran, lei che adesso era persuasa di cadere sotto il fuoco islamico. Non aveva paura di nulla Oriana, si alzava il pullover di cachemire per mostrare la cicatrice fresca dell’operazione al torace, quando i denti la tradirono chiedeva ai suoi cuochi prediletti, da Sandro’s, da Teodora, di frullarle i piatti, per l’orrore degli chef.
Ma quando un corvo nero le morì stecchito nel giardino di casa, lo prese come un presagio nefasto, urlò, imprecò, si battè, finché un collega non si arrampicò maldestro per liberarla dell’incomodo. Per ricompensarlo gli diede in dono una copia di Inshallah con dedica, ma ricevendo a sua volta in regalo un libro, lesse avida la dedica e urlò epica «Fanne un’altra, più calore! ». «Oriana Fallaci, scrittrice e provocatrice» titola oggi il New York Times che tanto la faceva inquietare. Osassi dire riposa in pace Oriana mi fulminerebbe, come quando provai a dirle di non credere alla rabbia contro gli emigranti. Meglio dire agitati, provoca Oriana, per l’eternità che temevi e sognavi a Manhattan nelle notti da sola sulla Upper East Side.

di Gianni Riotta dacorriere.it

La rabbia e l'orgoglio Oriana Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe un silenzio di un decennio. Lunghissimo. La nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore e non pronuncia più la parola giornalista), vive buona parte dell' anno a Manhattan. STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Introduzione di Ferruccio de Bortoli
Oriana Fallaci, con questo straordinario scritto, rompe un silenzio di un decennio. Lunghissimo. La nostra più celebre scrittrice (lei dice scrittore e non pronuncia più la parola giornalista), vive buona parte dell' anno a Manhattan. Non risponde al telefono, apre la porta di rado, esce assai di meno. Non dà mai interviste. Tutti ci hanno provato, nessuno c' è riuscito. Isolata. Ma la storia e il destino hanno voluto che il centro della moderna apocalisse si aprisse, come una voragine dantesca, poco distante dalla sua bella e letteraria abitazione. L'onda d' urto di quella mattina dell' 11 settembre ha sconvolto anche la quiete eremitica ed ermetica di Oriana. Apre la porta, gesto inconsueto del quale sembra meravigliarsi... Lo sguardo è dolce e insieme feroce. Oriana lavora da anni a un' opera molto importante e attesa in tutto il mondo, fra pile di documenti, in un disordine solo apparente, con fervore guerresco. Le avevo chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo quel martedì e Oriana ha raccolto su alcuni fogli emozioni, pensieri. «Su ogni esperienza lascio brandelli d' anima», aveva scritto qualche anno fa. E' ancora vero, verissimo. Pensieri forti. Dirompenti. Su cui ragionare e riflettere. Sull' America, sull'Italia, sul mondo islamico. Sulla Patria (sorprendente quel che dice sulla Patria). Invettive e tesi che nel medesimo tempo sgorgano dal cervello e dal cuore, o meglio dal cervello attraverso il cuore. «Qualcuno queste cose doveva dirle. Le ho dette. Ora lasciatemi in pace. La porta è chiusa di nuovo. E non voglio riaprirla», sbotta. I suoi soliti artigli. Farà discutere. Eccome


La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci
Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l' altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d' una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It' s good to be angry, it' s healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l' ho vissuta io, quest' Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella.
■ Leggi gli articoli di Oriana Fallaci nell'archivio del Corriere
Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d' un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L' ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l' audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull' obiettivo, si getta sull' obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l' audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l' aereo s' è infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro. Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell' aria. Sì, sembravano nuotare nell' aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf!
Sai, io credevo d' aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l' ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d' un ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La seconda s' è fusa, s' è sciolta. Per il calore s' è sciolta proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m' è parso, in un silenzio di tomba. Possibile? C' era davvero, quel silenzio, o era dentro di me? Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento. Come a Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento è finito, gli americani si son messi a raccattarli, contarli, non credevo ai miei occhi. Nella strage di Mexico City, quella dove anch' io mi beccai un bel po' di pallottole, di morti ne raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono nell' obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad evacuare. Gli ascensori non funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi piani ci voleva un' eternità. Fiamme permettendo.
Non lo conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?). Gli americani non lo diranno mai. Per non sottolineare l' intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E poi le due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di creature son troppo profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e invece è materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati.
La rabbia e l'orgoglio /2 STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Che cosa sento per i kamikaze che sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar l' arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano anche i terroristi della Baader-Meinhof). Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la gloria attraverso il cinema o la politica o lo sport la cercano nella morte propria e altrui. Una morte che invece del Premio Oscar o della poltrona ministeriale o dello scudetto gli procurerà (credono) ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì. Scommetto che sono vanesi anche fisicamente.
Ho sotto gli occhi la fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel mio «Insciallah»: il romanzo che incomincia con la distruzione della base americana (oltre quattrocento morti) e della base francese (oltre trecentocinquanta morti) a Beirut. Se l' erano fatta scattare prima d' andar a morire, quella fotografia, e prima d' andar a morire erano stati dal barbiere. Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette civettuole... Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di opinione che avemmo durante quell' incontro né il giudizio che su di lui espressi nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente presentatosi a lui come «mio amico», si sia ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati in bombe umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata dentro la seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i passeggeri del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per loro sì che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa, afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene la febbre.
rabbia e l'orgoglio /3 STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Preferisco parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano all'America. Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d' Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi. L' Unione Sovietica, i paesi satelliti dell' Unione Sovietica e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente l' Afghanistan, e tutte le regioni musulmane dell' Africa. Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che dorme. L' unica cosa che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura nervosa. E a New York, due volte nervosa. (A Washington, no. Devo ammetterlo. L' aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema di «se»: è sempre stato un problema di «quando». Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l' audio non funzionava, ci fosse quella sull' attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito? Poiché l' America è il Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell' America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. La solita storia del cane che si mangia la coda. Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti.
Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed viene diciamo dall' Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce d' iscriversi a un' Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell' acqua e scateni una strage. (Dico «se» perché stavolta il governo non ne sapeva un bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia e dall' Fbi va al di là d' ogni limite. Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e l' hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli impressionanti, così alti, così belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea l' hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino all' isteria). Quel Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più in questo tristo ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché corteggiare le principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a Beirut quando aveva vent' anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di Maometto e di Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni d' una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore. La demolizione è una specialità americana.
La rabbia e l'orgoglio /4 STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Quando ci siamo incontrati t'ho visto quasi stupefatto dall'eroica efficienza e dall'ammirevole unità con cui gli americani hanno affrontato quest'Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma quelli dell' Europa e in particolare dell'Italia sono ancora più gravi), l'America è un paese che ha grosse cose da insegnarci. E a proposito dell'eroica efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di New York. Quel Rudolph Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in ginocchio. Perché ha un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa fare bella figura dinanzi al mondo intero. E' un grande anzi grandissimo sindaco, Rudolph Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno incominciando da se stessa. E' un sindaco degno d' un altro grandissimo sindaco col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la cenere sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si fa?». Lui non delega i suoi doveri al prossimo, no. Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità. Non si divide tra l' incarico di sindaco e quello di ministro o deputato. (C' è nessuno che mi ascolta nelle tre città di Stendhal, insomma a Napoli e a Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e subito entrato nel secondo grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere con gli altri. S' è salvato per un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha rimesso in piedi la città. Una città che ha nove milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e quasi due nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E' malato come me, pover' uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui. E, come me, fa finta d' essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a tavolino, perbacco, stando seduta! Lui, invece... Sembrava un generale che partecipa di persona alla battaglia. Un soldato che si lancia all' attacco con la baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui. Gente senza boria e senza pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle.
Quanto all' ammirevole capacità di unirsi, alla compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie e al nemico, bè: devo ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì, che era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s' era stretto intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di Hitler e l' Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito. L' avevo annusata, sì, dopo l' assassinio di Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam, la lacerante divisione causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo senso ciò mi aveva ricordato la loro Guerra Civile d' un secolo e mezzo fa. Così, quando ho visto bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto democratici e repubblicani cantare abbracciati «God save America, Dio salvi l' America», quando gli ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta di stucco. Lo stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non ho mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate fiducia nel nostro presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono state ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato di New York. Lo stesso, quando sono state reiterate da Lieberman, l' ex candidato democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando il Congresso ha votato all' unanimità d' accettare la guerra, punire i responsabili. Ah, se l'Italia imparasse questa lezione! È un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all' interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l' opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all' opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell' opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai (e le operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito. Senza cedere, tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno ti rispondono: «I can allow myself to be exhausted not to be defeated. Posso permettermi d' essere esausto, non d' essere sconfitto». Tutti. Giovani, giovanissimi, vecchi, di mezz' età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L' avete visti o no? Mentre Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine americane, alzare il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un paese totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l' ha organizzata bene il Potere!». In America, no. In America queste cose non le organizzi. Non le gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli disincantata come New York, e con operai come gli operai di New York. Sono tipacci, gli operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la Patria...
In inglese la parola Patria non c' è. Per dire Patria bisogna accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra Madre. Native Land,Terra Nativa. O dire semplicemente My Country, il Mio Paese. Però il sostantivo Patriotism c' è. L' aggettivo Patriotic c' è. E a parte la Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico dell' America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una specie di umiliazione. Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e devota all' Unione Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari. E non è che gli avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la camicia verde e la cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i colori del tricolore. Mi-sun-lumbard, mi-sun-lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto negli stadi, quando c' è una partita internazionale di calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a udire il grido Italia-Italia. Eh! C' è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria viene sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale viene sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili operai che scavano nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche naso delle creature massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere quel caffè macinato.

La rabbia e l'orgoglio /5 STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Il fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, e dall' idea più sublime che l' Uomo abbia mai concepito: l' idea della Libertà, anzi della libertà sposata all' idea di uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo l' idea di libertà non era di moda. L' idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto l' Encyclopedie, questi concetti. E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell' Illuminismo? Non era mica roba da mangiare, l' Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776. (Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).
È un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell' idea venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre! Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco s' eran letti Aristotele e Platone, che in latino s' eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia greca se l' eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche l' italiano. (Lui diceva «toscano»). In italiano parlava e leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d' un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto all' autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono all' Inghilterra. Fecero la guerra d' indipendenza, la Rivoluzione Americana. Bè... Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell' anima, il bisogno d' avere una patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata all' uguaglianza.
La Dichiarazione d' Indipendenza. «We hold these Truths to be self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti v' è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i governi...». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la spina dorsale dell' America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di governarsi, d' esprimere le proprie individualità, di cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che il comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame. Bè, secondo me l' America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d' Inghilterra sembra chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c' è nulla di più forte, di più potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata. E con l' America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President, bienvenu!». Il guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell' Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una mano.
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Non sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle macerie e ridacchiano bene-agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza e nel dubbio. E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d' andar contro corrente cioè d' apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All' annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci.
Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v' importa neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono. Da vent' anni lo dico, da vent' anni. Con una certa mitezza, non con questa passione, vent' anni fa su questa roba scrissi un articolo di fondo per il «Corriere». Era l'articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze e tutti i credi, d' una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte le intolleranze, d' una laica senza tabù. Ma era anche l' articolo di una persona indignata con chi non sentiva il puzzo di una Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po' troppe. Feci un ragionamento che suonava press' appoco così, vent' anni fa. «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando loro disprezzano la nostra? Io voglio difendere la nostra, e v' informo che Dante Alighieri mi piace più di Omar Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero. «Razzista, razzista!». Eh, furono gli stessi progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi. Del resto quell' insulto me lo presi anche quando i sovietici invasero l' Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana e il turbante che prima di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio, berciavano le lodi del Signore? «Allah akbar! Allah akbar!». Io li ricordo bene. E a veder accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi. Mi pareva d' essere nel Medioevo, e dicevo: «I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista, razzista!». Nella loro cecàggine non volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah commettevano sui militari fatti prigionieri. (Gli segavano le braccia e le gambe, rammenti? Un vizietto a cui s' erano già abbandonati in Libano coi prigionieri cristiani ed ebrei). Non volevano che lo dicessi, no. E pur di fare i progressisti applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura dell' Unione Sovietica riempivan di armi l' eroico-popolo-afghano. Addestravano i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden. Via-i-russi-dall' Afghanistaaaan! I-russi- devono-andarsene-dall' Afghanistaaaan! Bè, i russi se ne sono andati dall' Afghanistan: contenti? E dall' Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani egiziani iracheni libanesi palestinesi sauditi che componevano la banda dei diciannove kamikaze identificati: contenti? Peggio: ora qui si discute sul prossimo attacco che ci colpirà con le armi chimiche, biologiche, radioattive, nucleari.
Si dice che la nuova strage è inevitabile perché l' Iraq gli fornisce il materiale. Si parla di vaccinazioni, di maschere a gas, di peste. Ci si chiede quando avverrà... Contenti? Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto l' America è lontana, tra l' Europa e l' America c' è un oceano... Eh, no, cari miei. No. C' è un filo d' acqua. Perché quando è in ballo il destino dell' Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L' America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l' America, crolla l' Europa. Crolla l' Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario cioè nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una volta, ero giovane e ingenua, dissi ad Arthur Miller: «Gli americani misurano tutto coi soldi, non pensano che ai soldi». E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»). In tutti i sensi crolliamo, caro mio. E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella. Neanche questo capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha capito. È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull' alleanza militare. Chirac, no. Come sai la scorsa settimana era qui in visita ufficiale. Una visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha visto le macerie delle due torri, ha saputo che i morti sono un numero incalcolabile anzi inconfessabile, ma non s' è sbilanciato. Durante l' intervista alla Cnn ben quattro volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e in qual misura intendesse schierarsi contro questa Jihad, e per quattro volte Chirac ha evitato una risposta. È sgusciato via come un' anguilla. Veniva voglia di gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo sbarco in Normandia? Lo sa quanti americani sono crepati in Normandia per cacciare i nazisti anche dalla Francia?». Escluso Blair, del resto, neanche fra gli altri europei vedo Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne vedo in Italia dove il governo non ha individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio! Malgrado la paura della guerra, in ogni paese d' Europa è stato individuato e arrestato qualche complice di Usama Bin Laden. In Francia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna... Ma in Italia dove le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la Cupola di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno.
Mi spieghi, signor cavaliere: son così incapaci i Suoi poliziotti e carabinieri? Son così coglioni i Suoi servizi segreti? Son così scemi i Suoi funzionari? E son tutti stinchi di santo, tutti estranei a ciò che è successo e succede, i figli di Allah che ospitiamo? Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei teme di subire il solito ricatto razzista-razzista? Io, vede, no. Cristo! Io non nego a nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura della guerra è un cretino. E chi vuol far credere di non avere paura alla guerra, l' ho scritto mille volte, è insieme un cretino e un bugiardo. Ma nella Vita e nella Storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura. Casi in cui aver paura è immorale e incivile. E quelli che, per debolezza o mancanza di coraggio o abitudine a tenere il piede in due staffe si sottraggono a questa tragedia, a me sembrano masochisti.
La rabbia e l'orgoglio/7 STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Masochisti, sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c' è Omero, c' è Socrate, c' è Platone, c' è Aristotele, c' è Fidia, perdio. C' è l' antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta della Democrazia. C' è l' antica Roma con la sua grandezza, le sue leggi, il suo concetto della Legge. Le sue sculture, la sua letteratura, la sua architettura. I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue strade. C' è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato (e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell' amore e della giustizia. C' è anche una Chiesa che mi ha dato l' Inquisizione, d' accordo. Che mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, d' accordo. Che mi ha oppresso per secoli, che per secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha zittito. Però ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o no? E poi dietro la nostra civiltà c' è il Rinascimento. C' è Leonardo da Vinci, c' è Michelangelo, c' è Raffaello, c' è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o supposta cultura è proibita. Guai se fischi una canzonetta o mugoli il coro del Nabucco.
E infine c' è la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Io sono ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il treno, l' automobile, l' aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di questo pianeta con l' elettricità, la radio, il telefono, la televisione, e a proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire ciò che ho appena detto?!? Dio, che bischeri! Non cambieranno mai. Ed ora ecco la fatale domanda: dietro all' altra cultura che c' è? Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso. (I Commentari su Aristotele eccetera), Arafat ci trova anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli adopriamo, e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya... I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono le scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah. E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo Corano.
Davvero pregi? Dacché i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell' Islam non fanno che cantarmi le lodi di Maometto: spiegarmi che il Corano predica la pace e la fratellanza e la giustizia. (Del resto lo dice anche Bush, povero Bush. E va da sé che Bush deve tenersi buoni i ventiquattro milioni di americani-musulmani, convincerli a spifferare quel che sanno sugli eventuali parenti o amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden). Ma allora come la mettiamo con la storia dell' Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente? Come la mettiamo con la faccenda del chador anzi del velo che copre il volto delle musulmane, sicché per dare una sbirciata al prossimo quelle infelici devon guardare attraverso una fitta rete posta all' altezza degli occhi? Come la mettiamo con la poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli, che non debbano andare a scuola, non debbano andare dal dottore, non debbano farsi fotografare eccetera? Come la mettiamo col veto degli alcolici e la pena di morte per chi li beve? Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra mica tanto giusto, tanto fraterno, tanto pacifico. Ecco dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture. Al mondo c' è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli pare. E se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all' altezza degli occhi, peggio per loro. Se son così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se son così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro. Se i loro uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino, idem. Non sarò io a impedirglielo.
Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è vario». Ma se pretendono d' imporre le stesse cose a me, a casa mia... Lo pretendono. Usama Bin Laden afferma che l' intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all' Islam, che con le buone o con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci. E questo non può piacerci, no. Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar le carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia. Quella tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata è in atto da tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da una fede e da una perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada quando gestiva l' Inquisizione. Infatti trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso. Te lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha conosciuto abbastanza bene in Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia, in Giordania, in Libano, e a casa sua.
Cioè in Italia. Lo ha conosciuto, ed anche attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto raggelanti conferme. Io non dimentico mai quel che mi accadde all' ambasciata iraniana di Roma quando chiesi il visto per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi presentai con le unghie smaltate di rosso. Per loro, segno di immoralità. Mi trattarono come una prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di levarlo immediatamente quel rosso. E se non gli avessi detto anzi urlato che cosa gradivo levare, anzi tagliare a loro... Non dimentico nemmeno quel che mi accadde a Qom, la città santa di Khomeini, dove in quanto donna venni respinta da tutti gli alberghi. Per intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per togliermi i blue jeans dovevo appartarmi, e naturalmente avrei potuto effettuare l' operazione nell' automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma l' interprete me lo impedì. Lei-è-pazza, lei-è-pazza, a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati. Preferì portarmi all' ex Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci prestò l' ex Sala del Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare alla luce il Bambin Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata dall' asino e dal bue. Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il Corano vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d' un tratto la porta si aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe strillando vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v' era solo un modo per non finire fucilati: sposarsi. Firmare l' atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi) che il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che l' interprete aveva una moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla disposta ad accettare la poligamia, e io non volevo sposare nessuno. Tantomeno un iraniano con la moglie spagnola e nient' affatto disposta ad accettare la poligamia. Nel medesimo tempo non volevo finir fucilata ossia perdere l' intervista con Khomeini. In tal dilemma mi dibattevo e... Ridi, ne son certa. Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di questo episodio non te lo racconto. Per farti piangere ti racconto quello dei dodici giovanotti impuri che finita la guerra del Bangladesh vidi giustiziare a Dacca.
Li giustiziarono sul campo dello stadio di Dacca, a colpi di baionetta nel torace o nel ventre, e alla presenza di ventimila fedeli che dalle tribune applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah akbar, Allah akbar». Lo so, lo so: nel Colosseo gli antichi romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura va fiera, si divertivano a veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni. Lo so, lo so: in tutti i paesi d' Europa i cristiani, quei cristiani ai quali malgrado il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del Pensiero, si divertivano a veder bruciare gli eretici. Però è trascorso parecchio tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i figli di Allah dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno. Dopo i dodici giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello condannato a morte s' era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la testa con gli scarponi da militare. E se non ci credi, bè: rileggi la mia cronaca o la cronaca dei giornalisti francesi e tedeschi che inorriditi quanto me erano lì con me. Meglio: guardati le fotografie che uno di essi scattò. Comunque il punto che mi preme sottolineare non è questo. È che, concluso lo scempio, i ventimila fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero nel campo. Non in maniera scomposta, cialtrona, no. In maniera ordinata, solenne. Lentamente composero un corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre tuonando Allah-akbar, Allah-akbar. Li distrussero come le due Torri di New York. Li ridussero a un tappeto sanguinolento di ossa spiaccicate. Oh, potrei continuare all' infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti rizzare i capelli in testa. Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che dopo l' intervista tenne un comizio a Qom per dichiarare che io lo accusavo di tagliare i seni alle donne. Da tale comizio ricavò un video che per mesi venne trasmesso alla televisione di Teheran sicché, quando l' anno successivo tornai a Teheran, venni arrestata appena scesa dall' aereo. E la vidi brutta, sai, proprio brutta. Era il periodo degli ostaggi americani... potrei parlarti di quel Mujib Rahman che, sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in quanto europea pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un colonnello inglese mi salvò. O di quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato alla testa. Dio, che gente! I soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì Bhutto cioè il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché troppo amico dell' Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein. Ma quei due erano musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti la conclusione del mio ragionamento. Una conclusione che non piacerà a molti, visto che difendere la propria cultura, in Italia, sta diventando peccato mortale. E visto che intimiditi dall' impropria parola «razzista», tutti tacciono come conigli
La rabbia e l'orgoglio/8 STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Io non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d' essere un' ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione. E questo urlo di dolore e di sdegno io te l' ho scritto avendo dinanzi agli occhi immagini che non sempre mi davano le apocalittiche scene con le quali ho incominciato il discorso. A volte invece di quelle vedevo l' immagine per me simbolica (quindi infuriante) della gran tenda con cui un' estate fa i mussulmani somali sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia città. Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per l' Europa e non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti. Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti dei parenti. Una tenda situata accanto al bel palazzo dell' Arcivescovado sul cui marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che nei loro paesi allineano fuori dalle moschee. E insieme alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote dell' acqua con cui si lavavano i piedi prima della preghiera. Una tenda posta di fronte alla cattedrale con la cupola del Brunelleschi, e a lato del Battistero con le porte d' oro del Ghiberti. Una tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie, tavolini, chaise-longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli per cuocere il cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo.
E, grazie alla consueta incoscienza dell' Enel che alle nostre opere d' arte tiene quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica. Grazie a un radio-registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d' un muezzin che puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono delle campane. Insieme a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che profanavano i marmi del Battistero. (Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come facevano a colpire l' obiettivo separato dalla ringhiera di protezione e quindi distante quasi due metri dal loro apparato urinario?) Con le gialle strisciate di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone di San Salvatore al Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in cacatoio. Lo sai bene. Lo sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere», ricordi? Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a casa mia. Mi ascoltò, mi dette ragione. «Ha ragione, ha proprio ragione...». Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì. Chiamai anche il ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei fiorentini che parlano con l' accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella faccenda. E pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha ragione, sì». Ma per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li accontentò. (Mi risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare). Cioè a Firenze e in altre città d' Europa. Allora cambiai sistema. Chiamai un simpatico poliziotto che dirige l' ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette. Così finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase soltanto un' immensa e disgustosa macchia di sudiciume. Però fu una vittoria di Pirro.
Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell' arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano. Eh, sì: sono tutti dov' erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi alla Loggia dell' Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca Nazionale, all' entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si pigliano a coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse). Sul sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un' antica signora. E va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali). Nelle storiche strade dove bivaccano col pretesto di vender-la-merce. Per merce intendi borse e valige copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi illegali, gigantografie, matite, statuette africane che i turisti ignoranti credono sculture del Bernini, roba-da-annusare. («Je connais mes droits, conosco i miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto vendere la roba-da-annusare). E guai se il cittadino protesta, guai se gli risponde quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua. «Razzista, razzista!». Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone gli sfiora la presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se un Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah, Eccellenza, le dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?». Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la mamma e la progenie. «Razzista, razzista!». E la gente sopporta, rassegnata. Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo: «Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l' avete un po' d' orgoglio, pecoroni?». Succede anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino che fece l' Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana. Sembra Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia.
Quella Venezia dove i piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la «merce» e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova. Quella Genova dove i meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da loro e deperiscono come belle donne stuprate. A Roma. Quella Roma dove il cinismo della politica d' ogni menzogna e d' ogni colore li corteggia nella speranza d' ottenerne il futuro voto, e dove a proteggerli c' è lo stesso Papa. (Santità, perché in nome del Dio Unico non se li prende in Vaticano? A condizione che non smerdino anche la Cappella Sistina e le statue di Michelangelo e i dipinti di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son io che non capisco. Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano «lavoratori stranieri». Oppure «mano-d' opera-di-cui-v' è-bisogno». E sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son diventati talmente signorini. Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale' s. Si vergognano a fare gli operai e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato. Ma quelli di cui parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno? In che modo suppliscono al bisogno della mano d' opera che l' ex proletariato italiano non fornisce più? Bivaccando nella città col pretesto della merce-da-vendere? Bighellonando e deturpando i nostri monumenti? Pregando cinque volte al giorno? E poi c' è un' altra cosa che non capisco. Se davvero son tanto poveri, chi glieli dà i soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? Chi glieli dà i dieci milioni a testa (come minimo dieci milioni) necessari a comprarsi il biglietto? Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d' avviare una conquista che non è solo una conquista di anime, è anche una conquista di territorio? Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c' è nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuol mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio. E sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo. Sbaglia, soprattutto, chi paragona l' ondata migratoria che s' è abbattuta sull' Italia e sull' Europa con l' ondata migratoria che si rovesciò sull' America nella seconda metà dell' Ottocento anzi verso la fine dell' Ottocento e all' inizio del Novecento. Ora ti dico perché. Non molto tempo fa mi capitò di captare una frase pronunciata da uno dei mille presidenti del Consiglio di cui l' Italia s' è onorata in pochi decenni. «Eh, anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio che con la valigetta di fibra partiva per l' America!». O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No. Non è affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi abbastanza semplici. Il primo è che nella seconda metà dell' Ottocento l' ondata migratoria in America non avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi la effettuava. Furono gli americani stessi a volerla, sollecitarla. E per un preciso atto del Congresso. «Venite, venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se venite, vi si regala un bel pezzo di terra». Ci hanno fatto anche un film, gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole Kidman, e del quale m' ha colpito il finale. La scena dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina bianca sul terreno che diventerà loro, sicché solo i più giovani e i più forti ce la fanno. Gli altri restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa muoiono. Ch' io sappia, in Italia non c' è mai stato un atto del Parlamento che invitasse anzi sollecitasse i nostri ospiti a lasciare i loro paesi.
Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi, se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti. Da noi ci sono venuti di propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che cercavano di rimandarli indietro. Più che d' una emigrazione s' è trattato dunque d' una invasione condotta all' insegna della clandestinità. Una clandestinità che disturba perché non è mite e dolorosa. È arrogante e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari tutti e due. Io non dimenticherò mai i comizi con cui l' anno scorso i clandestini riempiron le piazze d' Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono». Stronzi! In quelle piazze ve n' erano migliaia, e non si nascondevano affatto. Per rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila, prego-gentile-signore-s' accomodi, e accompagnarli ad un porto od aeroporto. Il secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo capirebbe anche uno scolaro delle elementari. Per esporlo bastano un paio di elementi. Uno: l' America è un continente. E nella seconda metà dell' Ottocento cioè quando il Congresso Americano dette il via all' immigrazione, questo continente era quasi spopolato. Il grosso della popolazione si condensava negli stati dell' Est ossia gli stati dalla parte dell' Atlantico, e nel Mid-West c' era ancora meno gente. La California era quasi vuota. Beh, l' Italia non è un continente. È un paese molto piccolo e tutt' altro che spopolato. Due: l' America è un paese assai giovane. Se pensi che la Guerra d' Indipendenza si svolse alla fine del 1700, ne deduci che ha appena duecento anni e capisci perché la sua identità culturale non è ancora ben definita.
L' Italia, al contrario, è un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c' entro. C' entro, ahimé c' entro. Che mi piaccia o no, c' entro. E come farei a non entrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane. Le campane di Santa Maria del Fiore che all' Epoca della Tenda la vociaccia sguaiata del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos' è l' architettura, cos' è la scultura, cos' è la pittura, cos' è l' arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos' è il Bene, cos' è il Male, e perdio... Ecco: vedi? Ho scritto un' altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d' esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m' accorgo nemmeno di pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m' ha imposto per secoli incominciando dall' Inquisizione che m' ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio d' accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica.
La bisnonna valdese non l' ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand' ero bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de' Benci a Firenze, e... Dio, quanto m' annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente incenso... Mi mancava perfino il puzzo dell' incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c' erano. Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v' è una minuscola cappella. Sta sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer). Santiddio! (Ci risiamo). Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un' ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell' altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c' è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l' Italia. E io l' Italia non gliela regalo.
La rabbia e l'orgoglio/9 STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Io sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l' ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: «Sir, io all' America sono assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L' America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non avesse tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m' è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l' America è sempre stata il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l' ho già, Sir. La mia Patria è l' Italia, e l' Italia è la mia mamma. Sir, io amo l' Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana». Gli risposi anche che la mia lingua è l' italiano, che in italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta. Nello stesso spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una lingua straniera. E poi gli risposi che quando ascolto l' Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire quel Fratelli-d' Italia, l' Italia-s' è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino. Penso solo: è l' inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola. Teppisti degli stadi a parte, s' intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell' Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l' Unità d' Italia non l' avremmo fatta), me la tengo come l' oro. La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati.
Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento, col quel tricolore. E l' Unità d' Italia, e la guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e l' ho fatta anch' io. Nelle file di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni. Quando l' anno dopo mi congedarono dall' Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline. Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l' Italia d' oggi. L' Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant' anni e che si appassionano solo per le vacanze all' estero o le partite di calcio. L' Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene. L' Italia squallida, imbelle, senz' anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L' Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti».
Non è nemmeno l' Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»). Non è nemmeno l' Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell' ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D' Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l' Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità. Tra una spaghettata e l' altra mi malediranno, mi augureranno d' essere uccisa dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia è un' Italia ideale. È l' Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall' Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un' Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest' Italia, un' Italia che c' è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem. Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t' avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane. Quello che avevo da dire l' ho detto. La rabbia e l' orgoglio me l' hanno ordinato. La coscienza pulita e l' età me l' hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.
di Oriana Fallaci
I i suoi articoli



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verbenasapiens
view post Posted on 17/9/2006, 10:31




Bill Kristol su Oriana Fallaci
New York. Nell’ufficio di Washington di Bill Kristol c’è il cofanetto giallo con la trilogia che Oriana Fallaci ha scritto dopo l’11 settembre. Ciascuno dei tre libri è autografato dalla scrittrice italiana. Kristol è un intellettuale neoconservatore e dirige il settimanale politico The Weekly Standard, una delle voci giornalistiche più ascoltate alla Casa Bianca di George W. Bush. La notizia della morte della Fallaci l’ha preso alla sprovvista: “Ovviamente sapevo che stava male, ma sapevo anche che combatteva da molto tempo. Quando si resiste così a lungo contro una malattia del genere si dà sempre l’impressione di averla sconfitta del tutto. Purtroppo non è così”. La Fallaci ha una lunga storia professionale negli Stati Uniti, ha scritto per il New York Times, per Newsweek, per il Washington Post, per il Wall Street Journal, ma di recente le sua rabbia contro la guerra santa di Osama bin Laden è tornata a interessare gli americani. Pochi mesi fa, in occasione della pubblicazione in inglese di “La Forza della Ragione”, il New Yorker le ha dedicato un lungo e benevolo ritratto. Il libro è stato recensito a destra e a manca, suscitando anche qui grandi polemiche per la nettezza delle sue opinioni.

La sfida al politicamente corretto
Kristol non era d’accordo con tutto quello che la Fallaci scriveva, ma sostiene che il caso Fallaci è un altro. “Non conta fare l’analisi letteraria della sua opera, ciò che importa è il grande contributo che la Fallaci ha dato all’altra battaglia che stava combattendo, quella contro il jihadismo”.
Oriana Fallaci ha riconosciuto il nemico, ce l’ha indicato e non l’ha mollato, è il succo del ricordo che ne fa Kristol. Secondo il direttore del Weekly Standard, il contributo della scrittrice italiana è stato “davvero importante” sotto questo punto di vista, intanto perché “il suo saggio è arrivato subito, all’inizio di questa battaglia, già poche ore dopo l’11 settembre”, mentre ancora in America si stava elaborando il lutto e in Europa si cominciava a vacillare. “La Fallaci è stata un esempio di coraggio personale e morale. E’ questo ciò che rimarrà di lei, probabilmente ancora più degli argomenti che usava e delle analisi contenute nei suoi libri, che io peraltro non condivido in pieno. Ciò che ha compiuto, però, è stato un atto puro di coraggio. Sarà ricordata per questo, è questo il suo contributo”.
Kristol ammira la Fallaci non solo perché ha scosso le coscienze europee, spiega piuttosto che l’esempio fallaciano ha avuto un effetto anche in America: “Ovviamente da voi in Europa ha sfidato la correttezza politica del continente, ma credo sia stata importante anche qui da noi negli Stati Uniti. Qui c’era molta gente che tendeva a non voler riconoscere la sfida jihadista, lei invece ha dimostrato di avere la forza e soprattutto la volontà di superare questa resistenza naturale. La Fallaci aveva il coraggio intellettuale di sfidare il politicamente corretto, ma anche il coraggio morale di combattere le opinioni convenzionali. Questa è una combinazione molto rara, molto importante anche per il futuro”. (chr.ro)
da Camillo
 
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2 replies since 17/9/2006, 06:52   830 views
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