Chi ha paura del corpo di Marilyn
Gli uomini ne hanno fatto l’icona del desiderio. Per cancellarne l’anima. L’interpretazione dello storico del «Corpo del duce» STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
Chi di noi non l'ha vista nuda almeno una volta? Giovane pin-up, lasciva ed esplosiva su quel lenzuolo color porpora. O burrosa donna fatta al bordo della piscina, una Venere in technicolor.Ola meno segreta delle donne col velo, nel bianco e nero dell'ultimo servizio fotografico. Marilyn Monroe si è fatta guardare da tutti durante la quindicina d'anni in cui ha scalato il muro della celebrità, dai calendari per garagisti della California post-bellica ai fasti hollywoodiani dell'America di Eisenhower e di Kennedy. Dopodiché, nel mezzo secolo o quasi seguito alla sua morte, il corpo di Marilyn è divenuto (secondo la precoce intuizione di AndyWarhol) un bene di consumo altrettanto desiderato che inflazionato: la donna di tutti, milioni e milioni di Marilyn usa e getta sui portachiavi o sugli accendini, sulle magliette o sulle tazze da tè.
Un essere inarrivabile, ma da possedere qui e subito. Una dea, ma alla portata di chiunque. Questo è stata Marilyn Monroe allo sguardo maschile dell'Occidente intero, prima di andarsene a 36 anni per un'overdose di barbiturici forse presi apposta, forse no. Donna morta sotto falso nome, tutta sola quel sabato sera, 4 agosto 1962, e poi ancora sola nella cella frigorifera dell'obitorio di Los Angeles, cadavere non identificato, «caso n. 81128». Ma sempre donna nuda, naturalmente: come per il compimento di un destino. E ancora oggi, quando pure tante cose sono cambiate da allora, comprese la teoria della bellezza femminile e la pratica dei costumi sessuali, il carisma di Marilyn Monroe sembra aleggiare da qualche parte nell'aria. Ancora nel 2006 (l'anno in cui Marilyn avrebbe compiuto ottant'anni) il suo appare un corpo speciale.
Di recente, in America, il dibattito intorno a Marilyn come sex symbol è stato rilanciato— anziché dall'ennesimo libro-bufala di «rivelazioni» sui partner segreti o sul suicidio-omicidio — dall'uscita di un volume intelligente e originale, che varrebbe la pena di tradurre in italiano. The many lives of Marilyn Monroe, «Le molte vite di Marilyn Monroe», di Sarah Churchwell, è una storia di storie: racconta come la vita di Marilyn è stata raccontata. Dai giornalisti, finché la diva era viva; poi da romanzieri e da cinematografari, da ex mariti e da ex amanti, da medici legali e da cameriere, da maschilisti e da femministe... Ma l'approccio indiretto vale a sostenere una tesi diretta, e provocatoria. Secondo la Churchwell, tutti quelli che hanno preteso di far rivivere Marilyn l'hanno uccisa una seconda volta. Perché obbedendo a un riflesso condizionato, o a un'abitudine compulsiva, tutti hanno guardato al suo corpo, nessuno ha guardato alla sua anima.
Difficile, beninteso, non concentrarsi su quel corpo che si offriva alla vista attraverso caratteri fisici tanto invitanti quanto stereotipati: i capelli biondo platino, le sopracciglia scure, gli occhimezzi chiusi e la bocca mezza aperta, il neo sulla guancia, la pelle lattea, i seni generosi, i fianchi abbondanti, le lunghe gambe. Già le riviste degli anni Cinquanta non fecero altro che ridurre Marilyn al suo corpo: la copertina del primissimo numero di Playboy, nel 1953 («Per la prima volta in assoluto, a colori, la famosa Marilyn Monroe nuda»), ma anche periodici per famiglie come Time e come Life, che intitolavano i loro servizi «Marilyn Monroe, un corpo che ha costruito una carriera», oppure (peggio) «Marilyn Monroe, il corpo è già pagato». Infiniti discorsi postumi hanno quindi ripreso il medesimo registro, a colpi di «nuda verità», «Marylin senza veli», «Monroe desnuda ».
Sarah Churchwell riconosce come la diva abbia incoraggiato questa ossessione corporale. Per esempio, lasciandosi fotografare mille volte allo specchio, come a suggerire un nesso tra il suo narcisismo e l'altrui voyeurismo: desideratemi pure, io stessa mi desidero! Ma la Churchwell contesta che il primato del corpo nella vita di Marilyn corrispondesse a una totale, assoluta sovranità della carne. Dentro quel corpo c'erano un cuore e un cervello, mentre la parabola esistenziale di Marilyn è stata immancabilmente ricondotta alla sua sfera carnale. Marilyn ninfomane, perché ispirata dal luciferino modello della madre. Marilyn frigida, perché violentata bambina dal padre adottivo o dal cugino adolescente. Marilyn troia, perché interessata soltanto a fare carriera. Marilyn isterica, perché divorata dal desiderio di maternità. Marilyn tossicomane, perché sessualmente delusa da mariti troppo vecchi per lei. Marilyn avvelenata, perché donna segreta di un Kennedy o di due. Insomma tutto e il contrario di tutto, pur di non farne che un corpo.
«Lo Stradivari del sesso»: la più banale delle definizioni di Marilyn Monroe è dovuta alla penna di un noto scrittore, Norman Mailer. Lo stesso Mailer il quale — con un quarto di secolo d'anticipo sull'affaire Monica Lewinsky—non esitò a calcolare quante ore la giovane Marilyn avesse trascorso inginocchiata su una moquette, per soddisfare gli appetiti dei produttori di Hollywood. Ma a Marilyn stessa, ormai famosa, capitò di ammettere: «Quanto tempo ho passato in ginocchio!», e addirittura di spiegare, a commento del suo matrimonio con Arthur Miller: «Così potrò smetterla di succhiare cazzi». Ecco l'unica cosa intorno a cui i biografi di Marilyn Monroe siano riusciti a mettersi d'accordo: la legge della fellatio nello spaziotempo della sua vita. Tale consenso non stupisce Sarah Churchwell, nella misura in cui riflette la nemesi che si è storicamente accanita contro una donna troppo vitale (anche se depressa), troppo autonoma (anche se fragile) e troppo intelligente (anche se icona della bionda scema) per venire accettata davvero nell'America perbenista degli anni Cinquanta, e magari ancora nell'America di Clinton e di Bush. Dove perfino una scrittrice liberale e liberata come Joyce Carol Oates ha fatto pagare a Marilyn — nel romanzo bestseller «Blonde» — il pedaggio di una personalità troppo complessa per non essere addomesticata e appiattita sulla sua sessualità: immaginando per centinaia di pagine un ménage à trois della disinibita attricetta con due bei ragazzi, fino al climax narrativo di una doppia penetrazione su sfondo di spiaggia californiana.
Chi ha paura di Marilyn Monroe? Tanti, tantissimi uomini, e non poche donne di ieri e di oggi, risponde la Churchwell. Perciò si è voluto e si vuole non riconoscere in lei nient'altro che un corpo, e nel suo corpo nient'altro che un destino: il destino dell’amante di professione, condannata a dare piacere senza riceverlo, oppure - cambia poco - il destino della madre mancata, condannata a non riprodursi neanche volendo (da qui, l'inesauribile chiacchiericcio sui suoi aborti procurati e su quelli spontanei, sulle sue gravidanze extrauterine e su quelle isteriche). Per quanto opposti, entrambi i cliché valgono a imprigionare Marilyn dentro i limiti del suo corpo: indifferentemente dal basso o dall'alto, l'utero o la bocca, la delicata fabbrica della vita o la regalata dispensa del sesso. Ed entrambi i cliché valgono a rifuggire dalla eventualità che Marilyn possa avere avuto uno spirito e una mente. Il corpo di Marilyn fa voglia. Male che vada, fa invidia, o fa pena. È la sua anima che fa paura.
Sergio Luzzatto
altre foto sono nel link
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Spettac...0/marilyn.shtml