Legittimo non votare, non ripartire da zero
L'intervento di Pier Ferdinando Casini, presidente della Camera dei deputati
Con l'approssimarsi del 12 giugno, il dibattito sui referendum in materia di procreazione assistita sta assumendo toni sempre più accesi. Circostanza prevedibile e naturale: le questioni su cui i cittadini saranno chiamati a pronunziarsi sono di grande complessità. Nella discussione si incrociano argomenti di ordine morale, religioso, scientifico, giuridico, sociale; si confrontano apertamente sistemi di valori; ci si interroga sulla direzione lungo cui orientare il tempo futuro della comunità nazionale. Si tratta insomma di questioni di sostanza, in grado di alimentare una riflessione approfondita sul merito degli interessi coinvolti, sulla loro reciproca ponderazione e sulla loro migliore tutela.
Eppure, con un sorprendente cambio di prospettiva, negli ultimi giorni i contenuti della riflessione sono passati in seconda fila ed hanno assunto invece centralità gli strumenti attraverso cui prendere posizione rispetto ai temi sul tappeto: le scelte di votare sì, votare no o di non andare a votare, da opzioni pacificamente legittime per Costituzione e come tali liberamente praticabili, sono diventate lo snodo cruciale della consultazione referendaria.
Una veemenza singolare e francamente sopra le righe è stata spesa in particolare da coloro che hanno inteso contestare la scelta di non recarsi alle urne. Una vis polemica che, amio parere, non ha aiutato a semplificare il quadro della situazione, ma anzi ha contribuito a confonderne i contorni.
Mi limito ad un breve excursus. Abbiamo appreso, ad esempio, che la non partecipazione al voto è un comportamento costituzionalmente lecito, così come l'invito a metterlo in pratica. Una campagna referendaria incentrata sull'indicazione di non votare sarebbe però una condotta di discutibile moralità politica. Io sono convinto che la moralità della politica stia nel rispettare, sempre e comunque, le regole e nell'utilizzare esclusivamente gli strumenti che quelle regole mettono a disposizione. Se questo è vero, mi sembra arduo porre una questione di moralità politica a chi, manifestando liberamente il proprio pensiero (prerogativa tutelata dalla Costituzione), invita i cittadini a non partecipare al voto (possibilità anch'essa fatta salva dalla carta fondamentale).
Abbiamo anche letto che il non partecipare al voto, pur nella sua indiscutibile liceità costituzionale, rappresenta una forma di ostruzionismo nei confronti di chi esercita poteri di democrazia diretta riconosciuti dalla Costituzione. Quest’ultima, dunque, offrirebbe strumenti tanto a chi vuole praticare la democrazia diretta, quanto a chi intende opporvisi non votando: tuttavia, mentre i primi eserciterebbero un diritto, i secondi sarebbero tacciabili di opportunismo. Un'asimmetria piuttosto singolare, della quale - tra l'altro - sembrano accorgersi solo adesso molti di coloro che hanno ampiamente e pacificamente praticato la scelta di non votare nelle numerose, precedenti tornate referendarie.
Io credo che sia indispensabile riportare i termini della questione alla loro semplicità, con l'equilibrio e la serenità che richiede la grande prova di maturità democratica cui gli italiani saranno a breve chiamati. E i termini sono i seguenti.
Il Parlamento ha approvato una legge, svolgendo fino in fondo il compito ad esso assegnato dalla Costituzione e nel pieno rispetto delle norme che ne disciplinano il funzionamento. Le Camere si sono assunte la responsabilità di decidere su temi di straordinaria delicatezza, dopo una lunga attività istruttoria, che ha attraversato l'arco di due legislature ed ha visto il contributo fattivo di tutti i soggetti interessati. Il dibattito è stato ampio, franco, non di rado aspro. Le scelte adottate hanno diviso le forze politiche lungo linee che non hanno seguito la demarcazione fra maggioranza e opposizione, ma hanno riflettuto piuttosto le divisioni che percorrono la società civile.
A fronte di questa verità inoppugnabile, documentata dagli atti parlamentari, lascia quanto meno perplessi la posizione di chi vede in questo referendum una sorta di ultima spiaggia, rispetto ad un Parlamento che si sarebbe sottratto al suo compito di rappresentare i cittadini, vittima della tirannia dell'attuale maggioranza (anche se la trasversalità delle opinioni emerse nel dibattito è sotto gli occhi di tutti). In Parlamento si discute, si vota, si trova una sintesi: una sintesi che può non piacere, ma che è e resta la sintesi della democrazia, poiché conforme alle regole che ne governano il funzionamento e le assicurano continuità nel tempo.
Questa sintesi non ha trovato il consenso di un certo numero di cittadini, che hanno ritenuto legittimamente di promuovere un referendum abrogativo giunto al vaglio degli elettori dopo aver superato tutti i passi procedurali prescritti dall'ordinamento e nel rispetto dei diritti e delle prerogative di ciascuno. Costoro si sono assunti un compito ben preciso: dimostrare, attraverso il concorso della metà più uno dei cittadini elettori, che la maggioranza dei parlamentari che ha votato quella legge non interpretava in quel momento la volontà del Paese. Una responsabilità che, per definizione, grava esclusivamente sui promotori della consultazione referendaria.
Rispetto a questa iniziativa, altri cittadini hanno maturato la scelta di non partecipare al voto, ritenendo questa l'opzione - costituzionalmente legittima - più rispondente all'esigenza di non vanificare il risultato ottenuto in Parlamento. I sostenitori del non voto si sono mossi nella logica della chiarezza, confrontandosi apertamente con tutte le posizioni in campo e motivando ampiamente le proprie ragioni. Sono ragioni forti ed impegnative, che interrogano in profondità le coscienze di tutti e che certamente sono meno semplici da spendere, sul piano mediatico, rispetto a quelle di chi vuole abrogare le disposizioni sottoposte al referendum dicendo di voler far nascere più bambini, di volere più scienza e più felicità: un modo un po' semplicistico di affrontare le paure, i dubbi e le attese del nostro presente.
Le ragioni del non voto non coincidono con la difesa ad oltranza del testo approvato dalle Camere. E' anzi diffusa la consapevolezza della necessità di dovervi porre mano per migliorare alcune delle soluzioni adottate. Ma altrettanto diffusa è la consapevolezza che eliminare del tutto quelle soluzioni, per quanto imperfette, rappresenterebbe un'evenienza drammatica: significherebbe di fatto ripartire da zero, rinunciando a tempo indefinito ai progressi comunque conseguiti rispetto ad una situazione di completa deregolazione della materia.
Adesso ci attende il cimento del voto. Come già ho avuto occasione di dire, le mie idee in proposito sono chiare e tali sono da tempo. Nei giorni scorsi il Presidente del Senato, Marcello Pera, ha dichiarato che non andrà a votare sulla base di ragioni di grande momento. Tra di esse, limpida è stata l'indicazione del Parlamento come luogo istituzionale ineludibile per soppesare adeguatamente le questioni della tutela della vita fin dal concepimento e dei limiti della libertà della scienza, al di là della distinzione tra laici e credenti. Sono considerazioni che condivido pienamente.
Questo complesso articolato di riflessioni mi induce dunque a ribadire che la condotta di chi sceglie di non andare a votare, forte delle proprie ragioni ideali e garantito nella sua scelta dalla Costituzione e dalla legge, ha la stessa dignità di quella di chi, invece, a votare si recherà, decidendo secondo coscienza per il "sì" o per il "no" o depositando nell'urna una scheda bianca.
Su unamateria di tale rilevanza, debbono prevalere la prudenza ed il senso di responsabilità. Ritorniamo allora al merito delle questioni, continuiamo ad interrogare la nostra coscienza per orientarci in questa difficile scelta e, soprattutto, restiamo fedeli allo spirito ed alla lettera della Costituzione, che ha guidato sino ad oggi con sicurezza i nostri passi lungo la via del progresso, della democrazia e della libertà.
Pier Ferdinando Casini, presidente della Camera dei deputati
da corriere.it