Il sofà delle muse

E parliamo di terrorismo allora, ragionando, non scrivengo ottusangolate

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verbenasapiens
view post Posted on 14/7/2005, 07:18






A scuola per imparare a giustificare il terrorismo?

In Francia si può, anzi si deve: basta chiamarlo “contestazione”. Gli studenti francesi che quest’anno hanno affrontato l’esame per il Brevet de Collège (terza classe di scuola superiore) si sono visti sottoporre una prova di Storia-Geografia dal tema di scottante attualità: gli Stati Uniti, una superpotenza contestata. A molti docenti il testo proposto dal Ministero dell’Educazione Nazionale è sembrato di per se stesso tendenzioso, manipolatorio e troppo ideologicamente connotato, ma dove veramente l’antiamericanismo dei ministeriali superava se stesso era il foglio n. 3 della prova , dove faceva bella mostra una vignetta di Plantu (il faziosissimo vignettista di Le Monde) raffigurante gli aerei pilotati da Mohammed Atta & C. che spezzavano le gambe allo Zio Sam. Eccolo qua:
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E non è tutto, perché a questa vignetta già abbastanza schierata si accompagnava il quesito numero 3: Comment la puissance américaine a-t-elle été contestée le 11 septembre 2001? (Come la potenza americana è stata contestata l’11 settembre 2001?). C’è da restare a bocca aperta. Per quelli di voi che non conoscono il francese, facciamo notare che “contester” ha esattamente lo stesso valore dell’italiano “contestare”, né più né meno. Quindi si può parlare di “contestation” a proposito dell’occupazione di scuole, di proteste contro il G8, etc. E secondo i burocrati del Ministero dell’Educazione francese l’attentato di New York e Washington con i suoi 3000 morti non sarebbe altro che questo: contestazione, e (sottinteso) in quanto tale fornito di una sua legittimità di protesta. Insomma i kamikaze islamici avrebbero solo espresso il loro parere, anche se forse un po’ troppo rumorosamente. Neanche gli ideologizzatissimi professori della scuola italiana – quelli che portavano i ragazzi a vedere Fahrenheit 911 - erano arrivati a tanto. (grazie a Primo-Europe)
link

il fatto vero è che la France, i galletti si nutrono ancora di grandeur e non accettano che c'è qualcuno che nello specifico li schiaccia..
Anche qui, l'individia è una brutta cosa che produce solo astioso veleno..o meglio bile a volontà..
 
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verbenasapiens
view post Posted on 14/7/2005, 12:53






L'apologia del terrorismo è un reato

Ricordato che l’apologia del fascismo, del nazismo e del razzismo sono vietate e la loro manifestazione sanzionata dalla legge, per l’esattezza dalla Legge 20 giugno 1952 n. 645 “Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione”, la cui efficacia nel nostro ordinamento è stata ribadita con tre successive sentenze della Corte Costituzionale la n. 1/1957, la n. 7/1960 e la n. 4/1972, nonché dal D.L. 26 aprile 1993 n. 122, convertito in legge con L. n. 205 del 25 giugno 1993.

Non potrebbe essere ipotizzabile l'ampliamento della suddetta legge, aggiungendo a: fascismo, nazismo e razzismo, il terrorismo religioso e politico?

http://emiledelapenne.splinder.com/post/5278997
Già...chissà che ne pensa certa gente, magari la stessa che gradana a gran voce, istericamente, che è un reato predicare l'astensione dal voto ai referendum....
 
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Maximus05
view post Posted on 15/7/2005, 07:09




Non saprei, certo che teoricamente i ragionamento fila.
La notizia di oggi è questa

Erano kamikaze o reclute inconsapevoli?

Barbe non rasate, timer negli zaini, nessun biglietto: forse non pensavano di morire

di Guido Olimpio

«Presumibilmente hanno voluto compiere un attacco suicida, però occorre considerare che il modus operandi non è quello classico del kamikaze in Kashmir o in Palestina». Per l’alto ufficiale «per colpire una città aperta in una democrazia aperta non è necessario ricorrere» a una missione suicida.

Le parole di Ian Blair, capo della polizia di Londra, sembrano nascondere qualche dubbio sulla dinamica dell’attacco. Partiamo dalla bomba. Nei primi tre giorni gli investigatori hanno parlato della presenza di timer facendo delle analogie con la strage di Madrid: tre delle quattro esplosioni sono state quasi simultanee.

Sarebbe però la prima volta che un kamikaze utilizza questo metodo di innesco, a meno che non si sia trattato di un sistema di riserva. Nel caso che il terrorista avesse avuto dei problemi poteva abbandonare lo zaino e andarsene.

Dunque hanno agito come uomini- bomba ad orologeria. Ma c’è chi avanza l’ipotesi che il team non sapesse di andare incontro alla morte e che siano rimasti vittime del loro mandante. Guardiamo ad altri teatri operativi.
Negli anni ’80 una fazione mediorientale, specializzata nelle valige- bomba, usava l’attentatore inconsapevole manomettendo il timer.

Nell’attacco dell’11 settembre non tutti i dirottatori conoscevano l’obiettivo finale. Nel massacro di Casablanca (maggio 2003) due kamikaze erano legati insieme da un paio di manette. A Bagdad i seguaci di Al Zarkawi hanno fatto detonare con il telefonino il veicolo condotto da un loro complice. Nella foto che lo ritrae il giovane Hasib Mir Hussain appare con un filo di barba mentre di solito i kamikaze si radono completamente.

Nelle case perquisite non è stato poi rinvenuto — fino ad oggi— un video o un testamento, né la classica lettera alla famiglia. Davvero strano per il primo attacco suicida compiuto da cittadini occidentali in Europa. Nei comunicati di rivendicazione —anche se vi sono dubbi sull’autenticità —non compaiono riferimenti specifici a un’azione kamikaze. Immaginate l’impatto propagandistico del filmato con un giovane inglese che spiega il suo «martirio » nel Tube. Altra stranezza: i documenti. La polizia sostiene di aver rinvenuto sui resti carte che hanno permesso l’identificazione. Da qui gli investigatori sono risaliti agli appartamenti di Leeds e alla vettura parcheggiata alla stazione di Luton. All’interno c’era una scorta di esplosivo e il telefonino del chimico egiziano, sospettato di aver avuto un ruolo nella preparazione degli ordigni. Tracce che dovevano essere cancellate. Ad alimentare le domande c’è poi il comportamento di Hussain. E’ al punto di incontro con i compagni e poi parte come un automa per la missione. Dalle 8.30 alle 9.47—ora in cui salta per aria sul bus 30 — è come in caccia dell’obiettivo. La polizia ritiene che volesse raggiungere il metrò ma che la chiusura di tutte le stazioni dopo le prime deflagrazioni glielo abbia impedito. Gli scampati del bus hanno raccontato di quel giovane agitato con le mani dentro uno zainetto. E’ stato lui ad attivare la bomba? Il suo timer era programmato su un’ora diversa? E’ interessante sottolineare che la polizia ha lanciato un appello ai cittadini per scoprire se Hussain sia stato visto insieme a qualcuno. Chi stanno cercando gli investigatori? Forse «l’accompagnatore », il complice che porta il kamikaze vicino all’obiettivo assicurandosi che non vi siano intoppi. Figura che compare spesso nelle missioni degli uomini-bomba palestinesi in Israele. Considerano gli attentatori dei «robot» e uno di loro, incontrato a Nablus, ci ha spiegato la filosofia: «E’ lo shahid che ci chiede di mandarlo incontro alla morte, non siamo noi».

Riesaminando il dossier dell’inchiesta un punto importante è quello dell’esplosivo. I presunti kamikaze ne hanno usato davvero poco: 4-5 chilogrammi per ogni ordigno.

La polizia ne ha invece trovato grandi quantità all’interno di una casa di Leeds e sull’auto a Luton. In pratica un deposito. A cosa serviva quella scorta se i quattro dovevano saltare per aria nell’azione del 7 luglio? La risposta è che l’esplosivo doveva servire all’ondata successiva di attacchi e dunque — come hanno avvertito le autorità—ci sono in giro altri militanti.
Una ragione in più, allora, per proteggere l’identità del primo team e le basi di partenza.

Quindi abbiamo una organizzazione capace di ottenere esplosivo potente, di ideare un piano letale, di individuare dei ragazzi in grado di attuarlo e di gettarli come «vuoti a perdere». Più reclute che soldati. Ma la stessa organizzazione qaedista, all’opposto di Madrid, non sembra preoccuparsi di proteggere il network, di usare i kamikaze come missili intelligenti. Eppure aveva alternative. Solo la cattura della mente sgombrerà il campo dagli interrogativi.
15 luglio 2005


da corriere.it


 
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Maximus05
view post Posted on 15/7/2005, 07:38




Altro che Schengen…



Il furbacchione Sarkozy, fiutato il vento elettorale e gli umori dei suoi connazionali – ai quali l'Unione comincia a non piacere perché non è più esattamente quella che pensavano, cioè carolingia –, "chiude le frontiere", sia pure provvisoriamente.
Certo, anche il trattato di Schengen prevede tale chiusura di fronte a fatti eccezionali. Peccato che in questo caso il fatto, pur tragico, si sia svolto fuori dall'area di Schengen: la Gran Bretagna non vi ha mai aderito, il che implicitamente dimostra sia la discutibile legittimità della decisione, sia soprattutto la sua mancanza di utilità pratica. Per entrare nel Regno Unito, come per entrare in Polonia o in Slovenia o in Svizzera, occorre ancora la carta di identità (il fatto che in questi giorni si parli di passaporti lascia perplessi: giornalisti disinformati, o incapaci di distinguere?)
A me la storia della chiusura delle frontiere interne pare più che altro fumo gettato negli occhi, offa per chi si illude così di ripristinare un improbabile e anche inopportuno Stato Nazionale di tipo ottocentesco. Non sarebbe meglio occuparsi più seriamente dei confini d'Europa?

E per l'Italia, non sarebbe meglio rivedere la politica di "accoglienza" di tutti i diseredati che toccano le nostre rive, una politica anche oggi tanto "aperta" da mandarvi in cerca battelli e carrette del mare quasi nelle acque territoriali di provenienza, perché possano essere meglio e più rapidamente portati fra noi a creare business e alimentando interessi di ogni tipo, oltre a farci sentire così buoni? Non sarebbe meglio puntare i piedi sulla questione fondamentale che la difesa e il controllo degli accessi nell'area Schengen dovrebbe essere a cura e a spese di tutti, con criteri definiti di comune accordo?

Sotto questo profilo, verrebbe quasi da pensare che la chiusura francese sia conseguenza della strategia "da colabrodo" italiana e spagnola – le Colonne d'Ercole sono un altro punto privilegiato di passaggio –; e proprio per questa ragione noi non abbiamo nessun vantaggio a bloccare i confini interni di Schengen: la mancanza di controlli non può che servire a far passare altrove, nel territorio dell'Unione, ospiti indesiderati in Italia…
Del resto, la gente, soprattutto in Gran Bretagna, sta ormai prendendo coscienza di una questione ben più grave: la chiusura agli ospiti indesiderati, ancorché da perseguire più seriamente, magari facendo in modo che i magistrati non disfacciano quello che la polizia ha fatto, lasciando decorrere i termini di carcerazione, discettando su guerriglia e terrorismo, eccetera; questa auspicata chiusura non serve a nulla, se i kamikaze sono nati e cresciuti in Europa. E il vero problema sta qui.

Quanti giovani frustrati, quanti figli di famiglie immigrate che appaiono ben integrate, quanti ragazzi frastornati da parole d'ordine demenziali sentite anche a scuola, invece di diventare casseur o leoncavallini, data l'origine della famiglia scelgono di diventare guerrieri della Jihad? E' un mondo, un modo di concepire l'educazione e di trasmettere i valori che sta andando in crisi. Cercare di ricostruire un sistema di valori "facile" perché chiaro e univoco – come quello che è stato alla base dell'Europa cristiana nel Medioevo – significa a mio avviso imboccare la strada sbagliata, pensare forse alla "pace", ma finire per troppa semplificazione nella logica di Lepanto. Solo un grande sforzo cosciente di tutti noi europei per riappropriarci dei grandi valori della tolleranza e della convivenza può offrire una prospettiva. E' una cultura forte e certa di sé, che poco ha a che fare con i relativismi e i buonismi, con quella crepuscolare e suicidale tendenza a mettersi sempre e prioritariamente nella pelle e nelle ragioni degli altri; ma che proprio nella propria pluralità e nella ricchezza delle esperienze ricondotte all'unità della convivenza trova le ragioni per mantenere in vita questo vecchio continente troppo buono e troppo molle, così autolesionista e percorso da tanti fremiti di suicidio.

Marco Cavallotti
da legnostorto

 
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verbenasapiens
view post Posted on 15/7/2005, 13:15







Giannini e le bombe di Bagdad

Chi l'avrebbe detto che il vice direttore di Repubblica fosse capace di analisi così esatte e concise sul terrorismo in Irak ?
Che potesse elargire spiegazioni tanto convincenti e sottili sulle cause degli attentati contro la popolazione civile(compresi i bambini), enunciando il suo geniale ed equilibratissimo punto di vista in materia di bombe?
E' stata una vera rivelazione apprendere dall'esimio giornalista ( spesso in ombra, alle spalle del direttore) che non è ammissibile giustificare il massacro di fanciulli con il fatto che la guerra l'ha voluta Bush e potrebbe, quindi, essere ascritta a lui la vera responsabilità della strage.
In realtà la strage è colpa dei terroristi !Sentenzia l'illustre pensatore, non mancando di formulare una fondamentale considerazione sulle motivazioni ideali dei "resistenti" iracheni, suggerendo le regole da seguire.Se proprio devono colpire le potenze capitaliste, che lo facciano con attentati diretti contro la Casa Bianca ed i vari parlamenti nazionali ! Sancisce così Massimo Giannini le regole d'ingaggio del nuovo terrorismo, nel nome della resistenza e del progresso, legittimando così i metodi proditori dei banditi e degli assassini islamisti.

Essi possono attaccare giustificatamente, seguendo tali argomentazioni, le sedi istituzionali dei paesi occidentali. Come dire che, in quegli ambiti, i massacri sono giustificati.

Un bell'esempio bipartisan, non c'è che dire.

Lasciate da parte le piccole creature, la cui morte - bontà sua - non si può (purtropppo?) far risalire all'America guerrafondaia, i kamikaze si possono impegnare ad libitum contro i rappresentanti e le classi politiche dei paesi occidentali, attentando liberamente in quei luoghi dove ordinariamente svolgono la loro attività o magari soggiornano...

Il terrorismo rispetti un minimo di faire play, santi numi ! e poi lanci tutte le bombe di cui dispone come e quando vuole.

Non sappiamo bene se attribuire le avventate parole di Giannini ad un transfert, un lapsus freudiano, una comprensione profonda dei fratelli fondamentalisti, ovvero a semplice dabbenaggine o precoce senescenza.

Nei panni del direttore del giornale, comunque, ci preoccuperemmo seriamente della disinvoltura e dello spirito sportivo del suo vice.

da legnostorto

Beh loro..loro dicono che la colpa è di bush perchè ha invaso l'Iraq per sete di petrolio
Relata refero ovvio..e non sono cose inventate oh yesssssssssssss

 
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verbenasapiens
view post Posted on 15/7/2005, 20:06






Sul Manifesto è comparsa questa vignetta..

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chissà dove sono gli indignati e le indignate della prima e dell'ultima ora..
 
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verbenasapiens
view post Posted on 15/7/2005, 20:24




Qui' invece c'è una vera chicca..e dire che trattasi di vangelo per alcuni quello che è scritto sul Manifesto..

deliri in rosso
 
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Pontormo
view post Posted on 16/7/2005, 07:23







L'emiro: «La colpa è anche di noi arabi» (sole 24 ore)

Intervista / Il leader del Qatar e padrone di al-Jazeera

• da Il Sole 24 Ore del 13 luglio 2005, pag. 7

di Ugo Tramballi

«Le città occidentali non sono più sicure e non è questo che dice il Corano: accettando le nostre responsabilità, dobbiamo trovare insieme a voi occidentali una via d'uscita». La preoccupazione di Hamad Bin Khalifa al-Thani è sincera. Ci sono state tante vittime e il terrorismo può colpire il suo piccolo Paese. Ma quelle bombe a Londra sono anche un attentato al modello di democrazia araba e al rifiuto dello scontro tra civiltà che l'emiro del Qatar persegue con un impegno sproporzionato alle dimensioni del Paese che governa.

Il Qatar è grande come il Trentino senza l'Alto Adige, ha l60mila abitanti piu 750mila immigrati. Ma è la terza riserva di gas naturale del mondo, l'economia in crescita più rapida (20% con un Pil procapite da 40mila dollari). Nel placido Qatar c'è al-Jazeera e c'è Centcom, il quartier generale americano della lotta al terrorismo e delle sue guerre mediorientali.

Recentemente è stata approvata una carta fondamentale, si è votato e presto nascerà il primo emirato costituzionale. «Non c'è dubbio, è solo questione di tempo. Già il tempo», sospira l'emiro, dubitando che il Qatar possa essere un esempio. «Occorre tempo». Forse più del ciclo di un'amministrazione americana? Poco più che cinquantenne, Hamad al-Thani sorride senza raccogliere l'insinuazione: è un buon amico di Washington. «L'Occidente deve continuare a fare pressione su di noi — risponde. Noi arabi abbiamo causato questi problemi e ci dobbiamo chiedere perché sia accaduto. Finora lo hanno fatto in pochi. Agli attentati di Londra troverà risposte governative, comunicati ufficiali. Ma nessuno è andato a parlare con la propria gente, a chiedersi perché».

C'è il sole ma non fa troppo caldo nella villa in Costa Azzurra dove Hamad Bin Khalifa al-Thani si gode qualche giorno di riposo. Non è un luogo di vacanza per bancari, è ovvio; ma non c'è nemmeno lo sfarzo che ci si attende nella villa di un emiro: understatement qatarino. Oggi a Roma l'emiro inizia la sua prima visita ufficiale in Italia, un Paese col quale i rapporti si stanno intensificando. Edison tratta da tempo gas naturale, l'Eni sta rafforzando le sue posizioni. Poi ci sono i Carabinieri che stanno addestrando la polizia dell'emirato.



Di questi tempi non è facile essere arabi e non è facile essere amici degli Stati Uniti. Amici ma non clienti. Il Qatar aveva tentato l'ultima mediazione per impedire l'invasione dell'Irak. «Ma Bush aveva già deciso di fare quella guerra dalla quale ora non è facile uscire». Combattendola, ricorda l'emiro, gli Stati Uniti hanno perso l'opportunità di essere negoziatori credibili dell'Iran che ora, a 200 chilometri dalle coste del Qatar, produrrà energia nucleare. «Con tutto il petrolio e il gas che hanno.... ». Nel giardino provenzale e a tavola, come a Doha e in tutti i viaggi all'estero, accanto all'emiro c'è Sheikha Mozah, la madre dell'erede al trono: consigliera discreta ma ascoltata dell'emiro. Nel mondo arabo non esiste il ruolo di emira né di first lady. Senza qualifica formale, Sheikha Mozah svolge tuttavia un ruolo moderno di donna araba: ha creato una fondazione che sta creando in una delle universiàa arabe più avanzate, un fondo per l'infanzia e per promuovere un ruolo femminile più attivo nella società del Golfo.

Altezza, secondo lei ci sono ancora Paesi che appoggiano o tollerano il terrorismo?

E’ possibile. Durante l'occupazione sovietica dell'Afghanistan molti raccoglievano denaro e aiuti per la guerra santa. E' lì che nascono le radici del terrorismo. Qualcuno, forse, continua a farlo anche oggi. Ma non più come prima e questo non perchè gli arabi hanno capito ma grazie alle pressioni dell'Occidente.

Questo terrorismo è islamico?

Sul Corano non troverà nulla che lo giustifichi. Alcuni dottori della legge islamica dicono che la democrazia non è per noi e alcuni governi usano questo per restare al potere. Anche noi qatarini siamo wahabiti. Io sono il sedicesimo successore di Muhammad Bin Wahhab (il fondatore della setta puritana, n.d.r.). Ma le nostre donne guidano e noi non tagliamo le mani ai ladri.

Lei però è il proprietario di al-Jazeera e gli americani dicono che è la televisione dei terroristi.

Una volta Donald Rumsfeld si è lamentato di questo: due giorni dopo anche al-Zarqawi ci ha fatto avere le sue lamentele. il governo tunisino ha richiamato l'ambasciatore per protestare contro il modo in cui la televisione aveva coperto le elezioni di quel Paese. Quando ne ho chiesto le ragioni, il direttore di al Jazeera mi ha fatto vedere la lettera di protesta che aveva ricevuto dall'opposizione tunisina a Londra. Non possiamo piacere a tutti. E poi, perchè si lamentano con me? lo sono solo l'editore. Capisco che gli arabi non amino una televisione così, ma gli americani dovrebbero sapere cos'è la libertà di stampa.

Non avrà creato al-Jazeera solo per fare business.

Certo che no. Appena sono andato al potere, 10 anni e un mese fa, ho dissolto il ministero dell'informazione e creato al-Jazeera. Gli arabi avevano bisogno di un'informazione aperta. dovevano capire cosa accade nel mondo e accanto a noi.

Non c'è indice dello sviluppo umano nel quale il Mondo arabo non sia indietro. Qual è la causa?

La mancanza di democrazia. E la corruzione. In questo Israele non c'entra. Dobbiamo chiederci perchè milioni di arabi vanno in Occidente a cercare lavoro. Lei si riferisce a quel rapporto dell'Onu sullo sviluppo umano, uscito qualche anno fa. Il primo a pubblicarlo è stato al-Jazeera. In molti Paesi non è ancora uscito. Il rapporto invece è giusto e non può che aiutare il mondo arabo. Sfortunatamente gli Stati Uniti e l'Europa hanno aiutato troppi Paesi che non lo meritavano. Perché servano, gli aiuti devono essere dati in cambio di democrazia.

Esiste un modello arabo di democrazia?

Ogni parte del mondo ha le sue peculiarità. Ma in ogni parte del mondo un ministro che sbaglia dev'essere licenziato, le decisioni di un monarca devono essere discusse.

Anche in Qatar?

Anche da noi.

Perchè quest'ansia di democrazia? In Qatar siete pochi e ricchi: è così necessaria la democrazia?

Lo è perche lo dice il Corano e perché è buona per il Qatar. Fra un paio di generazioni la nostra ricchezza sarà perduta. Solo istituzioni solide e un economia libera garantiscono il futuro.

Altezza, 10 anni esautorato l'emiro. Come ci si sente a fare un colpo di stato contro il padre?

Ogni giorno sono costretto a prendere decisioni difficili, ma quella fu la piu penosa della mia vita. Dovevo farlo. Continuare a parlare senza muovere un dito era solo una perdita di tempo. Oggi vediamo cose nel nostro Paese che non avremmo avuto: sono i giovani che controllano il Qatar. Vedo invece attorno a noi gente malata al potere e Paesi paralizzati. Con mio padre, comunque, mi sono riappacificato: ci vediamo tutti i week-end

da legnostorto

Edited by Pontormo - 16/7/2005, 08:24
 
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verbenasapiens
view post Posted on 17/7/2005, 08:59




E l’intellettuale arabo rinunciò a scrivere

Minacce ai moderati
di MAGDI ALLAM-

«Grazie soltanto ad Allah, la preghiera e la pace all'ultimo dei profeti. Sappi o miserabile, o apostata di nome Sayyid al-Qimni, che cinque fratelli monoteisti, leoni della Jihad, sono stati arruolati per ucciderti. Hanno giurato a Dio di acquisire le sue grazie tagliandoti la testa. Sono determinati a farsi rimettere i loro peccati facendo scorrere il tuo sangue. Ciò in ottemperanza all'ordine del supremo profeta: chi cambia la propria religione uccidetelo». Firmato: Gruppo della Jihad, Egitto. La condanna a morte è arrivata per posta elettronica al suo indirizzo e-mail personale [email protected] . Lui, al-Qimni, 58 anni, dottore in filosofia, è un intellettuale laico impegnato nella riforma moderata dell’islam. La vera notizia è che al-Qimni, autore di decine di saggi e firma prestigiosa del settimanale governativo Rose El Yossef , ha appena annunciato il proprio «pentimento e dissociazione da tutte le blasfemie scritte», nonché la decisione di «rinunciare alla scrittura definitivamente». «Ammetto che la morte, spezzando la mia penna, sarà una lenta agonia perché la mia penna è la massima aspirazione della mia vita e dello spirito che respiro - ha rivelato al sito liberale www. elaph.com - ma con questa decisione mi resterà il tempo per accudire i miei figli». Nel loro comunicato i terroristi del Gruppo della Jihad gli avevano dato un ultimatum di una settimana per pentirsi. Succede oggi in Egitto, retto da un regime formalmente laico.

La decisione di al- Qimni non è solo l’ammissione della sua impotenza a fronteggiare il terrorismo islamico. E’ anche una denuncia di uno Stato che non è in grado di difendere la vita di un libero pensatore. Così come accadde l’8 giugno del 1992 quando i terroristi della Gamaa al-Islamiya assassinarono al Cairo l’intellettuale Farag Foda. In quell’occasione il più insigne teologo islamico, Mohammad al-Ghazali, appartenente al movimento dei Fratelli Musulmani, legittimò in tribunale l’attentato terroristico: «L’uccisione di Farag Foda è stata di fatto l’esecuzione della punizione nei confronti di un apostata che lo Stato non aveva attuato». Lo stesso al-Ghazali nel 1959 aveva condannato di apostasia il premio Nobel per la Letteratura Naguib Mahfouz per il romanzo «Il rione dei ragazzi», condanna che ispirò il tentativo di assassinare Mahfouz nel 1994. Ma succede anche in Francia. Dove l’intellettuale laico tunisino Lafif Lakhdar è stato condannato a morte da Rached al- Ghannouchi, leader del movimento fuorilegge «Al Nahda», la sigla che rappresenta i Fratelli Musulmani in Tunisia. Giurista e editorialista, Lakhdar è stato uno dei promotori di un Appello al segretario generale dell’Onu per l’istituzione di un Tribunale internazionale contro il terrorismo. Da anni Lakhdar ripete che bisogna «prosciugare le fonti della cultura del martirio, ossia del suici dio e delle decapitazioni, depurando i programmi scolastici dai concetti della guerra santa e del martirio, insegnando la filosofia, i diritti dell’uomo, la storia comparata delle religioni, la psicologia».

Ebbene sapete da dove al-Ghannouchi ha emesso la condanna a morte di Lakhdar? Da Londra, che gli ha concesso asilo politico al pari di decine di predicatori dell’odio che hanno istigato migliaia di militanti islamici di tutto il mondo alla guerra santa contro l’Occidente e contro gli stessi musulmani mo derati. E il risultato, tragico, lo si è visto lo scorso 7 luglio con l’esordio di quattro kamikaze con cittadinanza britannica che si sono fatti esplodere a Londra. Una cultura della morte che è stata denunciata nell’ultimo commento scritto da al-Qimni sul numero di Rose El Yossef del 2 luglio scorso: «Quando gli israeliani uccidono anche un solo combattente palestinese, esplode la rabbia e la protesta. Ma nessuno si smuove di fronte al bagno di sangue di migliaia di innocenti in Iraq. I nostri giovani non hanno mai protestato contro la banda di al-Zarqawi e chi la sostiene, mentre decapitano degli innocenti. Continuiamo a ripetere che si tratta di un complotto americano e alcuni di noi definiscono tutto ciò come "resistenza". Ma dove è finito l’intelletto arabo?». Si dovrebbe dire che è finito nella paura. Paura del terrorismo islamico che massacra indiscriminatamente. Ma anche paura dei governi musulmani e occidentali che lasciano mano libera ai predicatori dell’odio e non difendono i musulmani laici e moderati che si battono per la sacralità della vita di tutti.

da www.corriere.it
da legnostorto
 
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verbenasapiens
view post Posted on 17/7/2005, 16:31




Sicurezza globale

Da un lato i radicali che riescono a varcare le frontiere in cerca di asilo; dall'altra i giovani emarginati facile preda dell'estremismo.

Un analista americano fa il ritratto dei jihadisti che minacciano l'Occidente

Come l'Europa fa crescere i terroristi
I modelli liberali del Continente hanno fallito nell'integrazione dei musulmani.

Ora subiscono la rivolta della seconda generazione
I l Pentagono è in guerra nel Medio Oriente per cercare di fermare gli attentati contro gli Stati Uniti. E anche se Fox News e CNN sono preoccupate che i terroristi riescano a entrare nel Paese attraverso i confini con il Messico nascondendosi tra gli immigranti illegali, il crescente incubo dei funzionari del Department of Homeland Security sono le persone munite di passaporto, ovvero quei mujahidin che non hanno bisogno di visto poiché provengono dai Paesi dell'Europa Occidentale alleati dell'America.

Le reti jihadiste si estendono in Europa dalla Polonia al Portogallo, grazie alla diffusione dell'islamismo radicale tra i discendenti dei lavoratori ospiti, reclutati in passato per favorire il miracolo economico europeo del dopoguerra. In caffè pieni di fumo di Rotterdam e Copenaghen, nei luoghi di preghiera improvvisati di Amburgo e Bruxelles, nelle bancarelle islamiche di Birmingham e del «Londonistan» (il quartiere pakistano di Londra), nelle prigioni di Madrid, Milano e Marsiglia, gli immigrati o i loro discendenti divengono volontari del jihad contro l'Occidente. Fu un musulmano olandese di origini marocchine, nato in Europa e cittadino europeo, che lo scorso novembre ad Amsterdam uccise il regista Theo van Gogh. Uno studio del Nixon Center su 373 mujahidin in Europa Occidentale e America del Nord tra il 1993 e il 2004 ha mostrato che i cittadini francesi erano più del doppio dei sauditi, e che c'erano più inglesi che sudanesi, yemeniti, cittadini degli Emirati Arabi, libanesi o libici. Un buon quarto dei jihadisti elencati erano di nazionalità europea e potevano quindi entrare negli Stati Uniti senza visto.

L'immigrazione di massa dei musulmani in Europa fu una conseguenza non desiderata del bisogno di manodopera nel dopoguerra. Appoggiati da politici bendisposti e giudici favorevoli, i lavoratori stranieri, che avrebbero dovuto soggiornare temporaneamente in un Paese europeo, beneficiarono di programmi di riunificazione delle famiglie e vi si stabilirono definitivamente. Ondate successive di immigrati crearono una marea di discendenti. Oggi i musulmani costituiscono la maggioranza degli immigrati in molti Paesi europei come il Belgio, la Francia, la Germania e l'Olanda, e la più grande componente della popolazione immigrata in Inghilterra.

È difficile stabilirne il numero esatto perché i censimenti occidentali raramente chiedono agli interessati quale sia la loro religione. Ma si stima che attualmente vi siano dai quindici ai venti milioni di musulmani che considerano l'Europa casa loro e che costituiscono dal 4 al 5 per cento della popolazione totale (negli Stati Uniti i musulmani non superano probabilmente i 3 milioni, rappresentando meno del 2 per cento della popolazione totale). La Francia ha la componente maggiore di musulmani (dal 7 al 10 per cento della popolazione totale), seguita da Olanda, Germania, Danimarca, Svezia, Inghilterra e Italia. A causa della continua immigrazione e dell'alto tasso di natalità, il National Intelligence Council prevede che la popolazione musulmana in Europa raddoppierà entro il 2025.

A differenza dei musulmani americani, entrati in un Paese enorme costruito sull'immigrazione, quelli arrivati in Europa Occidentale cominciarono ad affluire solo dopo la Seconda guerra mondiale, insediandosi in nazioni piccole e culturalmente omogenee. Per molti Stati questo afflusso era un fenomeno nuovo, e spesso male accettato, mentre gli immigrati nordafricani rimanevano tenacemente attaccati alle loro culture di origine. Quindi, a differenza dei musulmani americani, sparsi geograficamente, disomogenei dal punto di vista etnico e di solito agiati, quelli europei si raccolgono in squallide enclave con i loro compatrioti: gli algerini in Francia, i marocchini in Spagna, i turchi in Germania, i pachistani in Inghilterra.

In linea di massima, nell'Europa Occidentale ci sono due tipi di jihadisti. Chiamiamoli «esterni » e «interni». Gli esterni vengono da fuori, sono di solito persone in cerca d'asilo o studenti che hanno ottenuto rifugio nella liberale Europa in seguito a provvedimenti anti-fondamentalisti in Medio Oriente. Tra costoro ci sono imam radicali, spesso stipendiati dall'Arabia Saudita, che aprono le loro moschee ai reclutatori di terroristi e svolgono la funzione di messaggeri o padri spirituali nella rete del jihad. Una volta che costoro riescono a entrare in uno dei Paesi dell'Ue, aprono la porta a tutti gli altri. Sono assistiti da residenti legali o illegali, come i negozianti, commercianti e piccoli criminali responsabili delle bombe di Madrid.
Molti di questi «esterni» di prima generazione emigrano in Europa espressamente per portarvi il jihad. Nella mitologia islamica la migrazione è legata in modo archetipico alla conquista. Perseguitato nella Mecca idolatra, il profeta Maometto pronunciò nel 622 d.C. un anatema contro i capi della città e portò i suoi seguaci a Medina. Là creò un esercito con cui conquistò la Mecca nel 630 d.C., istituendovi la legge islamica. Oggi, nella mente dei mujahidin in Europa, il Medio Oriente in generale rappresenta la Mecca idolatra perché, negli anni Novanta, diversi governi della regione hanno represso l'avanzata islamista. L'Europa potrebbe essere vista come una specie di Medina, dove vengono reclutate truppe per la riconquista della Terra Santa, a cominciare dall'Iraq.

Gli «interni» sono invece un gruppo di cittadini emarginati, figli di seconda o terza generazione di immigrati, nati e cresciuto nel liberalismo europeo. Sono giovani disoccupati delle periferie di Marsiglia, Lione e Parigi o delle ex città industriali come Bradford e Leicester. Sono l'ultima, e più pericolosa, incarnazione di uno dei capisaldi della letteratura sull'immigrazione, la rivolta della seconda generazione. Sono anche drammatici esempi di quel che si potrebbe chiamare «assimilazione avversaria»: integrazione nella cultura avversaria del paese che li ospita. Dopo l'11 settembre il reclutamento di Al Qaeda sembra essersi strategicamente concentrato sulla seconda generazione. E se gli arruolatori del jihad a volte trovano orecchie attente nei bassifondi, tra bande di delinquenti o nelle carceri, oggi è più probabile che segnino punti nei campus universitari, nelle scuole d'élite e perfino nelle scuole medie.

Anche se per alcuni europei le bombe di Madrid sono state un evento epocale paragonabile agli attacchi dell'11 settembre negli Stati Uniti, coloro che la pensano in questo modo rappresentano solo una minoranza, soprattutto tra i politici. Ma quel che gli americani considerano scarso fervore da parte degli europei si spiega con il fatto che gli attacchi dell'11 settembre non sono avvenuti in Europa, e per un lungo periodo nel continente il terrorismo si era limitato ad autobombe e ordigni esplosivi nei bidoni della spazzatura. Nel Vecchio continente il terrorismo è ancora visto come un problema di criminalità, non il presupposto per una guerra. Inoltre alcuni funzionari europei credono che politiche acquiescenti verso il Medio Oriente possano offrire una protezione. E in effetti, Bin Laden ha attaccato selettivamente gli alleati degli Stati Uniti nella guerra irachena, risparmiando gli Stati che sono rimasti fuori del conflitto.

Con qualche eccezione, le autorità europee rifuggono dunque dalle misure legislative e di sicurezza piuttosto energiche adottate dagli Stati Uniti. Preferiscono limitarsi alla sorveglianza e ai tradizionali procedimenti giudiziari invece di lanciarsi in una «guerra al terrorismo» stile americano, mobilitando l'esercito, creando centri speciali di detenzione, rafforzando i sistemi di sicurezza ai confini, rendendo obbligatori passaporti con banda magnetica, espellendo i predicatori dell'odio e appesantendo le pene notoriamente lievi dei condannati per terrorismo. L'incapacità della Germania di condannare i cospiratori degli attacchi dell'11 settembre fa pensare che i cittadini europei, al di fuori della Francia e ora forse dell'Olanda, non sono pronti per una guerra al terrorismo.

Un jihadista può così attraversare l'Europa senza grandi controlli. Anche se viene notato, può cambiare il nome o attraversare un confine, contando su norme burocratiche e legali antiquate. Dopo le bombe di Madrid, un funzionario di medio livello è stato incaricato di coordinare le legislature europee contro il terrorismo e uniformare le misure dell'Ue relative alla sicurezza. Ma spesso ha solo una funzione di mediatore in mezzo al guazzabuglio dei codici dei 25 Stati membri. La reazione degli olandesi all'assassinio di Van Gogh, la reazione degli inglesi all'abuso dell'asilo politico da parte di jihadisti e la reazione dei francesi per l'uso del velo fa pensare che il multiculturalismo degli europei abbia cominciato ad entrare in conflitto con il liberalismo, il diritto alla privacy con la sicurezza nazionale. Il multiculturalismo una volta era il marchio del liberalismo culturale europeo, che il giornalista inglese John O'Sullivan definì come «libertà da noiosi costumi morali tradizionali e da restrizioni culturali». Ma quando si ha la sensazione che il multiculturalismo copra il terrorismo, il liberalismo non può che dissociarsi. In Francia, Olanda, Inghilterra e fino a un certo punto anche in Germania, dove la tolleranza religiosa è arrivata al punto da permettere alla cellula di Amburgo di trasformare dei luoghi di preghiera in luoghi di guerra senza che la polizia intervenisse, tra liberalismo e multiculturalismo si sta aprendo una breccia.

Tuttavia non è ancora affatto chiaro se misure politiche calate dall'alto possano funzionare senza che si verifichino decisivi mutamenti negli atteggiamenti sociali. I musulmani possono diventare europei senza che l'Europa apra loro i suoi circoli politici e sociali? Finora sembra che l'assimilazionismo assoluto abbia fallito in Francia, ma la stessa cosa è accaduta per la segregazione in Germania e il multiculturalismo in Olanda e in Inghilterra. Può esserci un'altra via? I francesi hanno vietato di indossare il velo nelle scuole pubbliche; i tedeschi lo vietano agli impiegati pubblici. Gli inglesi se ne compiacciono. Gli americani lo tollerano. Poiché gli Stati Uniti hanno precedenti relativamente più felici di integrazione degli immigrati, ci si potrebbe chiedere se il metodo misto degli americani — separare la religione dalla politica senza porre un muro tra di esse, aiutare gli immigrati ad adattarsi un po' alla volta ma lasciar loro una relativa autonomia culturale — non possa ispirare gli europei a tracciare un nuovo corso tra un multiculturalismo sempre più pericoloso e un puro laicismo che allontana i musulmani e altri credenti. Una cosa è certa: se non altro per la lotta contro il terrorismo, l'Europa ha bisogno di attuare una politica di integrazione che funzioni. Ma ciò non si verificherà da un giorno all'altro.

Anzi, la spaccatura tra il liberalismo e il multiculturalismo si sta allargando proprio nel momento in cui nel continente sta avvenendo il più ampio spostamento di popolazioni da quando le tribù asiatiche vennero spinte a occidente nel primo millennio della cristianità. L'immigrazione tocca chiaramente un nervo scoperto della sicurezza nazionale, ma pone anche questioni di natura economica e demografica: per esempio, come affrontare il problema di una popolazione che sta invecchiando in modo evidente; come mantenere una coesione sociale quando il cristianesimo è in crisi e il laicismo e l'islamismo sono, invece, in crescita; se l'Unione europea debba esercitare la sovranità al di là dei confini e della cittadinanza; e che cosa significherebbe per l'Ue l'annessione della Turchia con i suoi 70 milioni di musulmani. Inoltre, i mujahidin europei non sono una minaccia solo per il Vecchio Mondo, ma costituiscono un pericolo immediato anche per gli Stati Uniti.

Il New York Times ha dato notizia che Bin Laden ha demandato l'organizzazione del prossimo spettacolare attacco agli Stati Uniti a un nucleo organizzativo esterno. Vi sono buone probabilità che si trovi in Europa e impieghi cittadini europei. I Paesi europei di solito accordano la cittadinanza agli immigrati nati sul loro suolo, e così i potenziali jihadisti hanno diritto ad un passaporto europeo, che permette loro di entrare negli Stati Uniti senza visto e senza un colloquio. I membri della cellula di Amburgo che ha diretto gli attacchi dell'11 settembre arrivarono in volo dall'Europa e furono trattati dal Dipartimento di Stato come viaggiatori che usufruiscono del Visa Waiver Program (VWP).

Bisogna allora abolire il VWP, come chiedono alcuni membri del Congresso? No di certo. Il Dipartimento di Stato sta già cercando di introdurre misure più severe sul controllo dei visti, misure che implicano interviste più lunghe, più personale e maggiori attese. Abolire il VWP comporterebbe pesanti costi burocratici e diplomatici e irriterebbe gli amici europei rimasti agli Stati Uniti. Gli Usa dovrebbero, piuttosto, aggiornare i criteri usati nella selezione periodica dei Paesi che possono rientrare nel VWP, studiare i metodi di reclutamento dei terroristi e valutare di conseguenza le procedure nel controllo dei passaporti. Questi controlli potrebbero utilizzare unità operative create in collaborazione con gli europei. Insieme, le autorità statunitensi ed europee dovrebbero insistere che le linee aeree chiedano ai viaggiatori transatlantici diretti in America di dare le informazioni sul passaporto quando comprano il biglietto. Questa misura darebbe al nuovo National Targeting Center americano il tempo di controllare coloro che aspirano ad entrare negli Stati Uniti senza ritardare la partenza del volo. E ai banconi del check-in dovrebbero stazionare dei funzionari che fermino i sospetti.

I muhajidin europei mettono in pericolo tutto il mondo occidentale. La collaborazione nel tenere a bada il rancore dei musulmani, o almeno nel tenere lontani dagli aerei diretti negli Stati Uniti i jihadisti europei, potrebbe contribuire a riconciliare alleati che si sono allontanati. Un pericolo e un interesse condivisi dovrebbero impegnare media, politici e pubblico da entrambi i lati dell'Atlantico. Concentrarsi sui pericoli comuni e sulle soluzioni potrebbe essere un elemento di parziale conforto per gli europei e gli americani dopo i recenti disaccordi.

Robert S. Leiken
Direttore dell'Immigration and National Security Program del Nixon Center

da corriere.it
 
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Ishtar
view post Posted on 18/7/2005, 07:18






IN SILENZIO PER BAGDAD

di Magdi Allam

Dopodomani, mercoledì 20 luglio, gli iracheni osserveranno a mezzogiorno un minuto di silenzio per commemorare le migliaia di vittime del terrorismo. Noi occidentali che cosa faremo? E i musulmani nel mondo che cosa faranno? E’ sensato che si inorridisca, si denunci, si reagisca alle bombe di New York, Madrid e Londra, e poi si assista imperturbabili, omertosi, inerti alle stragi di innocenti a Bagdad? Ormai dovrebbe essere evidente che siamo tutti testimoni e vittime di una guerra mondiale del terrorismo di matrice islamica, di natura aggressiva.
Una guerra che massacra ovunque e indiscriminatamente cristiani, musulmani, ebrei o altri, all'insegna di una ideologia che esalta il culto della morte. Allora perché non promuovere, aderendo all'iniziativa del parlamento iracheno, una mobilitazione mondiale contro il terrorismo? Un minuto di silenzio da osservare in tutte le capitali, in ogni angolo della Terra, per testimoniare la dissociazione dell'umanità intera dal nemico comune che attenta alla nostra vita e mina la nostra civiltà. Come si può non provare umana pietà per il centinaio di morti dilaniati dall'esplosione di un kamikaze e di un'autocisterna carica di carburante davanti alla moschea di Musayyib il 16 luglio? Come si può non rabbrividire per la strage di ventiquattro bambini, ad opera di un altro kamikaze, alla periferia di Bagdad il 13 luglio? Come si può non solidarizzare con le altre decine di vittime dei barbari attentati in Iraq perpetrati da ben 15 terroristi suicidi soltanto nelle ultime 48 ore?

Guardiamo in faccia alla realtà: il 95% delle vittime del terrorismo sono iracheni, di cui tre quarti civili e un quarto militari e poliziotti; il 90% delle vittime cadono in attentati terroristici suicidi rivendicati dalla filiale di Al Qaeda diretta dal famigerato Abu Musaab al-Zarqawi; il 90% dei terroristi suicidi sono stranieri, di cui il 55% sono sauditi e il 3% provengono da Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Danimarca. Ebbene come è possibile continuare a immaginare che questa carneficina di innocenti da parte dell'internazionale del terrore che s'ispira a Osama bin Laden possa essere considerata una «legittima resistenza del popolo iracheno»?

L'ideologia nichilista che disconosce il valore della vita propria e altrui ha probabilmente toccato il baratro della perversione etica e della malvagità umana nell'azione del terrorista suicida islamico che si fa esplodere all'interno o contro una moschea, ritenendo di farlo nel n ome di Dio, nel luogo dove si prega Dio, per massacrare dei fedeli che condividono la stessa fede in Dio, nella certezza di ottenere da Dio la ricompensa della vita eterna. Succede in Iraq ma anche in Pakistan e in Afghanistan. Ad opera di fanatici wahhabiti, la setta maggioritaria in Arabia Saudita, che ha condannato di eresia gli sciiti e ne ha legittimato il massacro. Si tratta di un torbido intreccio di aberrazione religiosa e orrore ideologico. Che si traduce nel culto della morte. Il Male che è alla radice degli attentati sia in Iraq sia a New York, Madrid e Londra. Abbiamo 48 ore di tempo per decidere di aderire a un'occasione rilevante tramite cui affermare la condanna dell'Occidente, dei paesi musulmani e del mondo intero nei confronti del terrorismo senza se e senza ma. Condividendo il minuto di silenzio proclamato in Iraq, lo Stato martire per antonomasia, trasformato nel fronte di prima linea della aberrante "guerra santa" del terrorismo islamico globalizzato. Le premesse in Italia non sono incoraggianti. L'8 luglio c'erano solo 200 persone in Campidoglio a commemorare le vittime degli attentati di Londra. Il 18 marzo 2004, sempre in Campidoglio, erano ancora meno quelli che parteciparono alla manifestazione per le vittime della strage di Madrid. Eppure due giorni dopo, il 20 marzo 2004, un milione di persone sfilarono a Roma nel primo anniversario della guerra in Iraq. Finora gli italiani si sono rivelati più sensibili a manifestare contro gli americani che contro il terrorismo. L'auspicio è che il 20 luglio 2005 possa segnare una svolta nella mobilitazione internazionale contro il terrorismo.
da legnostorto

Sempre molto puntuale ed intelligente Magdi Allam..il branco di pacifisti a senso unico..non mi pare..
 
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salvatores
view post Posted on 19/7/2005, 05:32




Quindici kamikaze in 48 ore, i morti dimenticati di Bagdad

Il 95% delle vittime del terrorismo è composto da iracheni, di cui tre quarti civili. Il 90% cade per mano di Al Qaeda


Dopodomani, mercoledì 20 luglio, gli iracheni osserveranno a mezzogiorno un minuto di silenzio per commemorare le migliaia di vittime del terrorismo. Noi occidentali che cosa faremo? E i musulmani nelmondo che cosa faranno? E’ sensato che si inorridisca, si denunci, si reagisca alle bombe di New York, Madrid e Londra, e poi si assista imperturbabili, omertosi, inerti alle stragi di innocenti a Bagdad? Ormai dovrebbe essere evidente che siamo tutti testimoni e vittime di una guerra mondiale del terrorismo di matrice islamica, di natura aggressiva.
Una guerra che massacra ovunque e indiscriminatamente cristiani, musulmani, ebrei o altri, all'insegna di una ideologia che esalta il culto della morte. Allora perché non promuovere, aderendo all'iniziativa del parlamento iracheno, una mobilitazione mondiale contro il terrorismo? Un minuto di silenzio da osservare in tutte le capitali, in ogni angolo della Terra, per testimoniare la dissociazione dell'umanità intera dal nemico comune che attenta alla nostra vita e mina la nostra civiltà. Come si può non provare umana pietà per il centinaio di morti dilaniati dall'esplosione di un kamikaze e di un' autocisterna carica di carburante davanti alla moschea di Musayyib il 16 luglio?
Come si può non rabbrividire per la strage di ventiquattro bambini, ad opera di un altro kamikaze, alla periferia di Bagdad il 13 luglio? Come si può non solidarizzare con le altre decine di vittime dei barbari attentati in Iraq perpetrati da ben 15 terroristi suicidi soltanto nelle ultime 48 ore? Guardiamo in faccia alla realtà: il 95% delle vittime del terrorismo sono iracheni, di cui tre quarti civili e un quarto militari e poliziotti; il 90% delle vittime cadono in attentati terroristici suicidi rivendicati dalla filiale di Al Qaeda diretta dal famigerato Abu Musaab al-Zarqawi; il 90% dei terroristi suicidi sono stranieri, di cui il 55% sono sauditi e il 3% provengono da Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Danimarca.
Ebbene come è possibile continuare a immaginare che questa carneficina di innocenti da parte dell'internazionale del terrore che s'ispira a Osama bin Laden possa essere considerata una «legittima resistenza del popolo iracheno»? L'ideologia nichilista che disconosce il valore della vita propria e altrui ha probabilmente toccato il baratro della perversione etica e della malvagità umana nell'azione del terrorista suicida islamico che si fa esplodere all' interno o contro una moschea, ritenendo di farlo nel nome di Dio, nel luogo dove si prega Dio, per massacrare dei fedeli che condividono la stessa fede in Dio, nella certezza di ottenere da Dio la ricompensa della vita eterna.
Succede in Iraq ma anche in Pakistan e in Afghanistan. Ad opera di fanatici wahhabiti, la setta maggioritaria in Arabia Saudita, che ha condannato di eresia gli sciiti e ne ha legittimato il massacro. Si tratta di un torbido intreccio di aberrazione religiosa e orrore ideologico. Che si traduce nel culto della morte. Il Male che è alla radice degli attentati sia in Iraq s i a a N e w York, Madrid e Londra.
Abbiamo 48 ore di tempo per decidere di aderire a un'occasione rilevante tramite cui affermare la condanna dell'Occidente, dei paesi musulmani e del mondo intero nei confronti del terrorismo senza se e senza ma. Condividendo il minuto di silenzio proclamato in Iraq, lo Stato martire per antonomasia, trasformato nel fronte di prima linea della aberrante "guerra santa" del terrorismo islamico globalizzato.
Le premesse in Italia non sono incoraggianti. L'8 luglio c'erano solo 200 persone in Campidoglio a commemorare le vittime degli attentati di Londra. Il 18 marzo 2004, sempre in Campidoglio, erano ancora meno quelli che parteciparono alla manifestazione per le vittime della strage di Madrid. Eppure due giorni dopo, il 20 marzo 2004, un milione di persone sfilarono a Roma nel primo anniversario della g u e r r a i n Iraq. Finora gli italiani si sono rivelati più sensibili a manifestare c o n t r o g l i americani che contro il terrorismo. L'auspicio è che il 20 luglio 2005 possa segnare una svolta nella mobilitazione internazionale contro il terrorismo.
Magdi Allam

da corriere.it
 
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Ishtar
view post Posted on 19/7/2005, 17:58




Nuove barbarie

Secondo Ian Buruma i jihadisti non agiscono per vendetta ma combattono una società che giudicano materialista e infedele.

Unica soluzione, far capire alle comunità musulmane come le nostre libertà giovino anche a loro

Le bombe di Londra non c’entrano con Bagdad

Per i terroristi islamici l’Occidente va purificato con l’omicidio. La stessa fantasia totalitaria delle Brigate Rosse
Alcune interpretazioni formulate sugli attacchi di Londra erano prevedibili. Di certo Tariq Ali, giornalista ed ex agitatore studentesco, attribuirebbe l’intera responsabilità a Tony Blair: tutta colpa del premier britannico che ha sostenuto le guerre degli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq e ha spalleggiato Israele. «Causa principale di questi crimini — ha scritto Ali sul Guardian — sono le violenze perpetrate contro le popolazioni del mondo musulmano. La vera soluzione consiste nel porre immediatamente termine all’occupazione di Iraq, Afghanistan e Palestina». Tariq Ali, laico appartenente alla piccola nobiltà pachistana, trova ampio seguito tra i religiosi.
Sullo stesso giornale, Faisal Bodi, giornalista di Islam Channel, sosteneva che «la strada insanguinata della colpa porta dritto al n. 10 di Downing Street» perché quando Blair «ci ha trascinati nella guerra al terrore, sapeva che un Paese nel quale le reti estremiste islamiche non avessero interessi diretti, sarebbe stato incluso tra gli Stati ostili».
Pareri simili si erano sentiti quattro anni fa, immediatamente dopo la carneficina di New York e Washington, quindi prima delle guerre in Afghanistan e Iraq. La colpa doveva essere dell’Occidente, poiché era stato l’Occidente in passato a colonizzare gran parte del mondo e si presumeva fosse stato l’Occidente a inventare il capitalismo.
Sarebbe insensato negare che le potenze occidentali si siano macchiate di numerosi misfatti, eppure l’arrogante pretesa che quasi tutti i mali del mondo, dalla fame in Africa agli omicidi di massa nella metropolitana di Londra siano imputabili ai politici occidentali non è solo stupida ma profondamente nociva per quanti non vivono in Occidente: discolpa i leader e risparmia alle popolazioni l’onere di assumersi la responsabilità di ciò che accade nelle loro società. In fondo, se tutto è colpa di Blair o di Bush, del neocolonialismo o della globalizzazione, perché tante storie?
La guerra in Iraq può non essere stata una mossa previdente. Ha probabilmente galvanizzato l’estremismo religioso.A titolo di cronaca, io ero contrario. Sostenere, però, che non avremmo dovuto muovere guerra a Saddam Hussein perché questo ci ha esposto al fuoco dei guerrieri santi pare un modo di ragionare insano e certamente codardo. La Gran Bretagna si sarebbe trovata nel loro mirino in ogni caso. Ben prima che l’Iraq attraesse le mire di Blair, l’Occidente rientrava nella «sfera dell’odio» del guerriero santo.
Un altro argomento fuorviante che condanna l’azione condotta contro i despoti mediorientali è che «siamo stati noi a metterli lì». Quand’anche fosse vero che, per fare un esempio, Saddam Hussein o Osama Bin Laden avessero goduto in passato del sostegno di Gran Bretagna o Stati Uniti, questa sarà difficilmente una buona ragione per non affrontarli oggi. Avremmo dovuto chiudere un occhio sui loro crimini solo perché un tempo Donald Rumsfeld o Dick Cheney hanno fatto affari con loro? Questo modo di ragionare ripropone la logica perversa secondo la quale un passato da potenza imperiale dovrebbe sollevare gli europei dal compito di condannare le sanguinarie dittature sorte dall’indipendenza delle ex colonie.
Parimenti prevedibile e fuorviante è stato il tentativo compiuto dal sindaco di Londra Ken Livingstone di inquadrare gli attacchi alla sua città in termini di lotta di classe. Obiettivo degli attentatori della metropolitana, ha detto Livingstone, non erano «i potenti» ma i londinesi appartenenti alla «classe lavoratrice ». È vero che di solito le persone potenti preferiscono il taxi ma se c’è un elemento adatto a definire l’atrocità dell’attacco al Tube, è la sua natura indiscriminata. Il massacro non ha fatto distinzioni di classe né di altro genere. Sono morti anche musulmani.
Sono rimasto particolarmente sorpreso leggendo il toccante editoriale della Frankfurter Allgemeine Zeitung. Evocava lo scampanio del Big Ben, che risuonò audace durante il Blitz, nel quale i tedeschi fecero del loro meglio per polverizzare Londra, e che continuerà a segnare il tempo nelle ore di pericolo che ci attendono.
Prevedibili o no, tutte queste interpretazioni mancano il bersaglio. I rivoluzionari islamici non sono paragonabili alla Luftwaffe, all’Ira o a qualsiasi altro nemico la Gran Bretagna o il mondo abbiano affrontato prima d’ora.
I tedeschi furono spietati ma almeno i loro bombardieri portavano segni riconoscibili, i piloti indossavano uniformi, i raid erano commissionati da uno Stato, con il quale la Gran Bretagna era in guerra. L’Ira era il braccio armato di un partito politico, i cui obiettivi, come oggi sappiamo, erano negoziabili. Attentatori suicidi e jihadisti non rappresentano alcuno Stato; in realtà non ne riconoscono uno al di fuori della comunità, totalmente immaginaria, della pura fede. Non c’è nulla da negoziare con persone che aspirano a uccidere il maggior numero possibile di infedeli per edificare il regno divino. In più, questi sacri guerrieri che considerano le stragi un atto naturale, convinti di essere ispirati da Dio, sono al di là del limite dell’ortodossia religiosa; sono puri assassini.
Magari la risposta al terrore fosse nelle mani dei governi occidentali. In realtà, non esiste ragione per ritenere che il ritiro delle truppe statunitensi, britanniche o israeliane dai Paesi arabi possa risolvere il problema, poiché la guerra religiosa proseguirebbe. La pretesa che la Gran Bretagna o gli Stati Uniti costituiscano degli obiettivi solo a causa della «guerra al terrore» dichiarata da George W. Bush e appoggiata da Tony Blair, è ugualmente infondata. Nell’ottobre 2000, quando Bill Clinton era ancora insediato, 17 marinai americani morirono nell’attacco alla nave da guerra Uss Cole, perché Osama Bin Laden si opponeva alla presenza di truppe infedeli sul suolo arabo.
Pensiamo a cosa accadrebbe se i sostenitori del ritiro immediato delle forze occidentali dal Medio Oriente l’avessero vinta. Ne scaturirebbero una feroce contesa tra i signori della guerra in Afghanistan e una guerra civile totale in Iraq. Tutto questo offrirebbe a un ridotto numero di fanatici religiosi la possibilità di conquistare il potere in un grande Stato arabo e condurre la guerra santa contro chiunque non si sottomettesse alle loro fantasie totalitarie. La reazione della maggior parte dei musulmani agli attacchi di Londra è stata energica. Scrivendo dalla Svizzera, il controverso islamista Tariq Ramadan, ha toccato la corda giusta, esortando i suoi fratelli musulmani ad «avere il coraggio di denunciare quanto detto e fatto da certi musulmani in nome della loro religione». Riesce però difficile accettare che i jihadisti siano semplici criminali senza nulla in comune con l’Islam. Certo, è fondamentale isolare gli assassini dalla maggioranza dei musulmani pacifici e rispettosi della legge. Tony Blair ha fatto molto in questo senso. Si può solo essere d’accordo con quanto scritto sul Guardian da Robin Cook: «Osama Bin Laden non rappresenta l’Islam più di quanto il generale Mladic, che comandò le forze serbe, non sia un modello di spirito cristiano ». Abbastanza vero. Significa che l’ideologia di Osama Bin Laden non ha niente a che vedere con l’Islam?
Esistono tante versioni dell’Islam, come del Cristianesimo. Almeno, il Cristianesimo ha istituzioni investite dell’autorità di decidere chi fa parte della Chiesa e chi ne è fuori. L’Islam non ha una gerarchia di questo tipo. Non ha Chiesa e i suoi religiosi agiscono spesso autonomamente. Certo anche il Cristianesimo ha i suoi elementi autonomi, alcuni scapestrati, altri violenti. I guardiani evangelici americani che aspettano il Regno di Dio dopo che l’Apocalisse avrà spazzato via i peccatori, non saranno rappresentativi ma sono cristiani. Dobbiamo tenerlo presente per comprenderne azioni e motivazioni. Se Bin Laden o gli assassini di Londra pretendono di agire nel nome del Profeta, vanno presi in parola non come rappresentanti della maggioranza ma come una estrema ramificazione che deve essere analizzata. Escludere qualsiasi collegamento con la religione o l’Islam significa eludere il problema.
La ragione per la quale la Gran Bretagna è nel mirino della jihad non è la politica di Blair, Israele o l’«imperialismo americano» ma consiste nel fatto che viviamo nel mondo della jahilliya. Lo stesso vale per tutti i Paesi occidentali e per quelli che non sono retti dalla legge islamica. Jahilliya, l’epoca che precede il Profeta, è letteralmente lo stato dell’ignoranza ma significa anche «barbarie». A chi visse prima del governo di Maometto si poteva perdonare la mancata conoscenza dell’Islam ma per noi che viviamo oggi in un mondo corrotto, licenzioso, perverso, idolatra, avido, senz’anima, selvaggio, non è così. Per questo dobbiamo essere annientati. Poiché i governanti laici delle società che si definiscono islamiche si sono lasciati contaminare dal materialismo occidentale, la rivoluzione santa ha due obiettivi: abbattere i governanti traditori e colpire l’origine della loro corruzione, l’Occidente.
Dato che molti governanti nel mondo arabo sono corrotti e oppressivi, pare poco probabile che il fervore rivoluzionario perda il suo slancio in mancanza di una positiva evoluzione politica nella regione. Oltre che incoraggiare i liberali e allentare i legami con i dittatori arabi, non c’è molto che i governi occidentali possano fare. La guerra in Iraq ha un duplice significato. È, da un lato, una benvenuta inversione di tendenza rispetto all’automatismo con il quale si accordava sostegno ai dittatori anticomunisti del mondo non occidentale. I liberali arabi se ne rendono conto. Ha anche infiammato, però, le passioni di quanti individuano nell’Occidente la fonte di tutti i mali.
I jihadisti «cresciuti in casa» non sono molto diversi dai giovani invasati delle sette rivoluzionarie degli anni Settanta: la Rote Armee Fraktion in Germania Ovest, l’Esercito Rosso giapponese, le Brigate Rosse in Italia. Quelli combattevano gli spettri del nazifascismo al quale i loro genitori non erano riusciti a resistere. Come i moderni jihadisti, erano spesso disadattati che bramavano di perdersi in una causa purificatrice e salvare il mondo dalla corruzione, lanciandosi in atti di estrema violenza. Malgrado si considerassero marxisti (non rappresentativi, naturalmente), avevano contatti con alcune delle stesse organizzazioni oggi ancora coinvolte in fatti di terrorismo. Il denaro veniva dall’Iran, dalla Libia e dalla Siria, all’addestramento provvedeva, tra gli altri, l’Hezbollah.
Si possono rintracciare ulteriori parallelismi. Nel 1995, adepti del culto di Aum Shinrikyo uccisero 12 pendolari giapponesi e ne ferirono oltre 2000, gasandoli nella metropolitana di Tokio. Guidati da un guru mezzo cieco che predicava un misto di buddismo, scintoismo e cristianesimo, erano, anche loro, puristi convinti che il mondo fosse tanto corrotto dall’avidità e dal degrado, che solo un’Apocalisse avrebbe permesso il compiersi dell’immacolata utopia degli eletti. Lungi dal rappresentare gli oppressi, la maggior parte dei seguaci di Aum aveva un alto grado di istruzione, solitamente di tipo scientifico—ingegneri, chimici e simili. Lo stesso valeva per alcuni degli attentatori delle Torri Gemelle.
C’è, tuttavia, una differenza importante tra quei disperati rivoluzionari e i jihadisti di oggi. Quelli erano nemici interni germogliati dal cuore di società stabili. In più, erano i figli di una benestante borghesia. Il loro obiettivo era l’annientamento del mondo dei genitori, il mondo che li aveva partoriti e allevati.
I sospetti attentatori di Londra sono membri di minoranze vulnerabili, outsider facili da isolare e bollare come estranei. Se il parallelismo tra i rivoluzionari occidentali o giapponesi e il Medio Oriente poggia su ragioni d’opportunità, il nesso tra immigrati musulmani in Europa e la jihad islamica è sostanziale; nel mondo immaginario degli estremisti, la guerra santa predicata da fanatici religiosi, finanziata con fondi sauditi e mediorientali, portata avanti da convinti credenti, costituisce il nucleo dell’identità personale. Anche nel caso in cui fosse solo una minuscola percentuale a scegliere l’azione diretta, sta di fatto che ogni giorno, attraverso Internet e altri mezzi di informazione, migliaia di giovani musulmani confusi si nutrono di propaganda antioccidentale e antisemita.
È poco probabile che gli assassini di Londra saranno gli ultimi della serie. È possibile che stiano per arrivarne di peggiori. Sarà difficile contenere il fenomeno. Occorrerà tenere ben presenti le libertà che i musulmani possono usare a proprio vantaggio. Il conflitto potrà essere vinto solo a patto che i cittadini musulmani rispettosi della legge in Gran Bretagna e in qualsiasi altro luogo siano messi nelle condizioni di comprendere che queste libertà vanno anche a loro beneficio e che vale la pena di difenderle. La sfiducia nei confronti del diverso, soprattutto se il diverso si presenterà nei panni di un seguace dell’Islam, è destinata a crescere con l’avanzare della guerra santa. Se i crimini commessi da un minuscolo gruppo innescassero violenze generali rivolte contro una minoranza molto più ampia, il risultato del processo non sarebbe la vittoria della guerra santa ma l’annientamento delle nostre società.
(Traduzione di Maria Serena Natale)
Ian Buruma
Scrittore e professore di Diritti Umani al Bard College di New York
19 luglio 2005

ada corriere.it

Gran bell'articolo
 
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Ishtar
view post Posted on 19/7/2005, 18:02




Dialogo & jihadismo


Fatwa antiterrorismo di 500 imam.

La Bbc ospita un devoto alla causa palestinese e uno stagista islamico radicale scrive sul Guardian.

Londra invita Ramadan, Manchester Qaradawi.

Nuovo fervore multiculturale brit

Londra. In Gran Bretagna il fervore multiculturale non si placa. Dialogare, dialogare, dialogare è la regola d’oro della reazione britannica agli attentati del 7 luglio. Non importa con chi, non importa chi sia l’interlocutore, quel che conta è non chiudersi, non lasciarsi cogliere dalla paura. Ieri gli imam di 500 moschee hanno deciso di lanciare una “fatwa” nelle preghiere di venerdì, dichiarando che il terrorismo è non islamico. Oggi ci sarà la dichiarazione ufficiale a Westminster, mentre il premier, Tony Blair, incontra i leader musulmani moderati. Anche così si esorcizza la paura, la si rimuove.
Dialogare, dunque. Per dialogare è stato invitato a scrivere un articolo-commento Aslam Dilipazer, militante del gruppo islamico radicale Hizb ut Tahrir. L’invito è arrivato da uno dei quotidiani più prestigiosi d’Inghilterra, il Guardian, per il quale Dilipazer lavora come stagista (con borsa di studio di un anno): così, il 13 luglio, il giovane “trainee journalist”, che proviene dallo Yorkshire e ha frequentato la moschea di Leeds (da lì in questi giorni ha fatto altri reportage), ha avuto uno spazio tutto suo nel quale ha condannato gli attacchi di Londra – nelle prime due righe – per poi concentrarsi su tutti i “ma” del caso: in sostanza Dilipazer sostiene che l’occidente, il governo inglese e tutti i londinesi non dovrebbero esser scioccati dall’attentato perché era previsto e perché non è slegato da tutto il male che è stato fatto contro il mondo arabo e, alla fine, ricorda che la comunità musulmana “non è disposta a ignorare le ingiustizie”.
Il Guardian non è certo nuovo a queste uscite: due giorni dopo l’attentato, ha dato spazio ai commenti di esponenti del mondo islamico, in particolare a Feisal Bodi, capo di Islam channel – che al Foglio ha detto: “George W. Bush e Osama bin Laden sono le facce della stessa medaglia” – e a Tariq Ramadan, il controverso intellettuale svizzero-egiziano bandito dagli Stati Uniti ma incensato in Inghilterra (è stato invitato grazie ai soldi della polizia di Londra a un incontro il 24 luglio), che comunque, di fianco a Bodi, appariva il più moderato. Ma il caso del giovane stagista è più singolare: Hizb ut Tahrir, di cui Dilipazer fa parte, è un movimento integralista che sogna il Grande califfato islamico dal Marocco all’Indonesia ed è sospettato di fiancheggiare il terrorismo islamico. Nel 2003 la Bbc – la stessa che ha qualche reticenza nel definire i terroristi come tali, preferisce chiamarli “estremisti” o “insorgenti” – in un suo servizio, ha etichettato Hizb ut Tahrir come “un gruppo che promuove il razzismo e l’odio antisemita, che chiama i ‘bombers’ martiri e che chiede ai musulmani di uccidere gli ebrei”; lo stesso Guardian, in un suo articolo del novembre scorso, l’ha identificato come “il gruppo islamico più radicale d’Inghilterra”. Il quotidiano britannico ha però ora fatto quadrato intorno a Dilipazer – che pure prima di arrivare al Guardian ha scritto un articolo sul sito musulmano Khilafa.com in cui esortava i ragazzi della sua comunità a studiare perché “dovremo guidare uno Stato islamico che dominerà il mondo economicamente, militarmente e politicamente” – e al suo gruppo: Isabel Milner, dell’ufficio stampa del quotidiano, ha detto al Foglio che non ci sono novità rispetto alla dichiarazione iniziale, che recita: “Aslam Dilipazer è un membro di Hizb ut Tahrir, un’organizzazione che nel nostro paese è legale. Stiamo tenendo la questione sotto esame”.

Anche il teatro si adegua
Dialogare, dunque. Per dialogare è stato invitato, il 7 agosto a Manchester, Youssef al Qaradawi, teologo vicino ai Fratelli musulmani e telepredicatore su al Jazeera, amico del sindaco di Londra, Ken Livingstone, e famoso per le sue tante “fatwa”, come quelle che dicono che gli attentati contro Israele e contro gli americani, anche civili, in Iraq sono ben accetti. “La sua partecipazione non è stata ancora confermata perché ha problemi di salute – ha detto al Foglio Mohammed Shafiq, portavoce della Ramadhan Foundation, che organizza l’incontro – ma noi abbiamo chiesto con insistenza il suo intervento”. E perché? “Perché il mondo musulmano è molto diviso – continua Shafiq – e finora abbiamo sottovalutato la minaccia che l’islam radicale porta a noi musulmani. Dobbiamo unirci, e Qaradawi, insieme con altri grandi esponenti del mondo islamico, può aiutarci a farlo”. Tra questi “grandi esponenti” invitati a Manchester compaiono Imran Waheed, leader in Inghilterra di Hizb ut Tahrir (di cui sopra), e Abdullah Hakim Quick, professore sudafricano che ha argomentato più volte “l’assistenza” che gli Stati Uniti avrebbero dato agli attacchi dell’11 settembre 2001.
Dialogare, dunque. Per dialogare è stato invitato dalla Bbc a fare un filmato di due minuti Azzam Tamimi, membro della Muslim Association of Britain, che ha condannato gli attacchi ma che, nel corso del mini-documentario, ha fatto emergere il legame tra le bombe e le politiche estere inglesi e americane, il fatto che sono state causate da “errori della sicurezza, della società e della politica” e che “molti giovani musulmani sono arrabbiati come mai prima d’ora”. Tamimi qualche tempo fa ha detto che avrebbe sacrificato la sua vita per la causa palestinese e, giovedì scorso, nella tavola rotonda dopo il filmato, ha ribadito in diretta: “Le bombe sono sbagliate a Londra come lo erano a Madrid, ma in Palestina la situazione è completamente diversa”. Due giorni dopo l’attentato del 7 luglio, in una veglia organizzata per richiedere il ritiro immediato delle truppe in Iraq, Azzim ha detto al Foglio: “Non facciamo finta che le truppe inglesi a Bassora non c’entrino nulla con King’s Cross”. Un parlamentare laburista ha chiesto alla Bbc di bandire Azzim dal suo palinsesto, ma l’emittente televisiva ha detto di non aver ricevuto “alcuna lamentela” e che il programma Newsnight, così si chiama, “si pone l’obiettivo di proporre il più ampio spettro di idee possibile”.
Dialogare, dunque. Per dialogare, due giorni prima dell’attentato, il Royal Court Theatre, in Sloane Square a Londra, ha aperto le porte a una pièce intitolata: “Talking to terrorists”, parlare con i terroristi, che raccoglie su un palco i racconti di chi ha commesso atti terroristici, di chi ne è rimasto colpito e di chi ne parla male. Le testimonianze sono tante e alcuni personaggi, anche se non viene detto, sono riconoscibili, come l’ex ambasciatore inglese in Uzbekistan, Craig Murray, che spiega come si riconosce un corpo che è stato ustionato dall’acqua bollente. Lo scopo dichiarato della rappresentazione teatrale è cercare di capire che cosa spinge una persona normale a diventare un terrorista, ma, tra un racconto commovente e l’altro, s’intuisce la spiegazione implicita: è l’occidente che se le va sempre a cercare.

(19/07/2005
da il foglio

Ecco l'importante è che si crei il vuoto intorno a questa gente..non è facile ma almeno bisogna provarci
 
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verbenasapiens
view post Posted on 21/7/2005, 14:50






Ignorate le stragi di civili in Iraq


Indifferenti di Ernesto Galli Della Loggia


Prosegue senza sosta in Iraq la mattanza terroristica: negli ultimi diciotto mesi, in soli attacchi suicidi con autobombe, sono state uccise più di duemila persone tra le quali non si contano i bambini.
L’obiettivo politico del terrorismo è stato reso ancora una volta esplicito dall’attentato dell’altro ieri, quando ad essere eliminati sono stati due rappresentanti sunniti nella commissione incaricata di redigere il progetto della nuova Costituzione da sottoporre entro ottobre al referendum.
L’obiettivo è per l’appunto quello di impedire il processo di stabilizzazione democratica del Paese, e dunque, coerentemente con questo obiettivo, di impedire a qualunque costo che la minoranza sunnita partecipi al suddetto processo in tal modo legittimandolo.

Nei progetti dei terroristi, insomma, i sunniti, che con Saddam si erano abituati a una indebita egemonia a spese della maggioranza sciita, dovrebbero oggi, privati di quel potere, macerarsi nel rancore e nel desiderio di rivalsa esercitando una costante pressione destabilizzatrice nei confronti del nuovo regime. Da qui gli attentati in una duplice direzione, contro gli sciiti nel loro insieme, e in modo mirato, viceversa, contro quei sunniti che come le due vittime recenti accettano di stabilire un dialogo traminoranza e maggioranza.
Mi domando: ce n’è abbastanza o no per affermare senza mezzi termini che in Iraq il vero nemico del terrorismo, il suo vero bersaglio politico è né più né meno che la democrazia? Cos’altro sono infatti le elezioni cui ha partecipato la maggioranza degli aventi diritto, e adesso una Costituzione, e poi domani il referendum confermativo, e poi ancora le elezioni politiche, e insieme il tentativo di far partecipare anche la minoranza alla nascita del nuovo regime? Cos’altro se non la democrazia? Eppure la gran parte dell’opinione pubblica europea, e italiana in specie, segue distrattamente l’ecatombe irachena, non riserva nessuna emozione e tantomeno solidarietà alle sue vittime. È indifferente.

La ragione di questa indifferenza la conosciamo bene: è la guerra americana, l’invasione voluta da Bush. Tutto è contaminato e compromesso da quella sorta di peccato storico originale.
Ma non ci rendiamo conto che così non facciamo altro che far pagare agli iracheni il prezzo delle nostre dispute o, se si vuole, delle nostre scelte ideologiche. Dispute e scelte sacrosante magari, ma che forse dovrebbero essere messe da parte di fronte al dramma sanguinoso di un popolo. Gli iracheni, infatti, cercano oggi nella loro grande maggioranza di trarre da un evento discutibile e di sicuro ambiguo, come è stato l’intervento militare degli Usa, il beneficio che sarebbe per loro possibile trarre se non ci fosse l’azione implacabilmente omicida del terrorismo. Questo semina strage perché vuole impedire a tutti i costi che un intero popolo si getti alle spalle il passato e i suoi drammi — da quello terribile della dittatura saddamita a quello della guerra di due anni fa — e approfitti delle circostanze per costruirsi un presente non più abitato dalla paura.

È stupefacente, di fronte a ciò, quanta gente in Europa e in Italia sembri invece condividere, sia pure inconsapevolmente, gli scopi degli uomini della morte, e anziché alla speranza ragionevole nel domani preferisca dare ascolto alle presunte ragioni di ieri.
21 luglio 2005

da corriere.it

Sempre molto lucido ed intelligente Della Loggia..altro che voli pindarici, lui sa mettere il dito nella piaga dell'ipocrisia e dell'arroganza di chi crede di avere ragione apriori
BRAVISSIMO
 
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23 replies since 14/7/2005, 07:18   128 views
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