Vediamo chi è questa donna
Il ritratto Clementina «la peste» che difende le donne
Milanese, 32 anni, guida un progetto per le vedove afghane «La vita da ufficio? Non è per me: io voglio rendermi utile»
«Il mio nome non mi rende giustizia. Ma quale Clementina... Io non sono clemente per niente, soprattutto con i maschi e i maschilisti di questo Paese ». Le chiama «pillole di saggezza», o, più milanesamente, «stupidate», queste e altre freddure con cui Clementina Cantoni è solita «raggelare» amici, colleghi e conoscenti nei sempre più rari momenti di relax della vita a Kabul. «Di solito mi vengono meglio la sera, e qui ora è mattina — ci ha scritto in una email dall’Afghanistan— purtroppo vedo che la mia vena si sta esaurendo. Vorrei scrivere un libro con queste mie parole di saggezza nate fra queste aride montagne (oh! quanto mi manca la mia Valtellina!) e che hai avuto la fortuna di sentire con le tue orecchie. Ti autorizzo, dall’alto della mia magnanimità, a citarle quando rientri nella mia Milano».
Può sembrare fuori luogo, in un momento come questo, ricordare la Clementina Cantoni rapita ieri sera nel centro di Kabul piena di ironia, beffarda, allegra, impertinente, tagliente di lingua e — solo apparentemente — spigolosa di carattere. Clementina la peste, l’ha ribattezzata infatti la comunità italiana in Afghanistan, che ha cominciato a conoscerla 3 anni fa, quando è sbarcata nel Centro Asia per l’organizzazione danese Care, di cui cura un programma di assistenza per 10 mila vedove nei distretti 5-6-7-8 della capitale. Perché Clementina non fa sconti a nessuno sia quando scherza sia quando lavora. Ma dietro l’essenzialità e la serietà lombarde nasconde un animo giulivo, solare, mediterraneo. Non cela per nulla invece la sua volontà ferrea e la sua dedizione per gli altri, soprattutto le «vedove di Kabul. Sono tante, almeno 60 mila — ripete Clementina —e sono le più sfortunate, le più reiette». La filosofia di vita di Clementina è molto semplice e lineare, ma radicale: «Non sono fatta per la vita di ufficio, non sopporto la vita da impiegata: se devo faticare per vivere, preferisco farlo servendo gli altri e rendendomi utile a chi ha bisogno. Non amo la Milano da bere, preferisco una birra, se la trovo».
Eppure non le mancava nulla per vivere meno pericolosamente, per una vita di successo nella sua «grand Milàn»: di famiglia per bene, nata in una zona per bene, nel cuore di Città Studi, corso di laurea all’estero, un fratello a New York (dove vive la sua adorata nipotina), un altro in un’altra parte del mondo — come ha ricordato ieri sera un cugino a Milano, che ha fatto da portavoce e da scudo alla famiglia, schiantata dalla notizia del sequestro. «Ci scriveva ogni giorno — ha detto — era serena come sempre, certo non si poteva immaginare un evento simile». E’ stata lei stessa una sera in cui era particolarmente loquace per la felicità di andarsene in ferie, prima in Valtellina, poi a New York e quindi a Boston, a tracciare una sua succinta biografia: «Sono nata a Milano nel 1973 (due giorni fa ha compiuto 32 anni, ndr), ho due fratelli, Stefano e Davide, un nipotino in America. Sono a Kabul dall’inizio del 2002, ma ho cominciato a fare lavoro umanitario nel 1977: ho lavorato in Bulgaria, in Kosovo... Ho tanti amici. Etanta pazienza per vivere in Afghanistan ». Pazienza per le condizioni di vita oppressive imposte anche (soprattutto) alle donne occidentali, da una società «maschilista». Concetto che ribadì quando la intervistammo per «Io Donna» con altre italiane impegnate in Afghanistan, proprio sulla condizione di «espatriata» in un Paese islamico e conservatore appena uscito dal medioevo talebano. «Mi sento onorata di essere intervistata su un tema serio quale quello delle donne occidentale in un Paese come questo, dove non si sopravvive se non fosse per il nostro senso umoristico e un po’ cinico», rispose, usando quasi le stesse parole di Simona Lanzoni, responsabile di Pangea, di Silvye Garoia, unica occidentale in Procura a Kabul, di Carla Ciavarella e Carmen Colitti che lavorano per il progetto giustizia in Afghanistan, dell’architetto Anna Soave dell’Aga Khan Trust. «Ma sì — specificò Clementina — i pesi della vita qui non sono tanto il poter prendersi una vacanza solo ogni tre mesi, anche se una volta ho battuto il record di permanenza senza interruzione: ben 6 mesi! Ciò che è insopportabile è la mancanza di ogni libertà, di privacy.. Quando esci sei sempre scrutata, qualche volta insultata dai uomini afghani, non puoi guidare l’auto, la security. Insomma le solite menate..»
Così Clementina, con ennesimo tocco di milanesità, liquidava i pericoli insiti nel suo lavoro e nel suo risiedere in Afghanistan. Non certo perché fosse incosciente, soprattutto dopo gli ultimi allarmi su possibili sequestri di occidentali, lanciati in questi giorni dall’organizzazione che si occupa della sicurezza degli stranieri impegnati nell’Onu o nelle varie agenzie umanitarie. Era molto prudente, come tutte le sue amiche e colleghe. Ogni sera rispondeva all’appello radio, non si muoveva da sola. Ma ieri sera tutte le precauzioni non sono bastate. Resta una email sul computer: «Che cosa mi ha spinto a fare tutto ciò? Boh, non riesco a fare lavoro d'ufficio e se devo stare 8/10 ore ogni giorno a guadagnarmi il pane quotidiano, preferisco farlo impegnandomi in un’attività che m'appassiona: lavorare in Paesi post-conflict con le persone del posto, a cercare di ricostruire il loro Paese, insieme».
Paolo Foschini
Costantino Muscau
da corriere.it