| ISLAM Una guerra senza fine sul corpo delle donne Il libro scandalo di Ayaan Hirsi AliPer aver avuto a che fare con lei troppo da vicino Theo van Gogh è stato assassinato e poi sgozzato ritualmente: oggi in “Non sottomessa” racconta la storia della sua vita e denuncia chi la vuole morta
• da La Repubblica del 7 aprile 2005, pag. 7
di Adriano Sofri
Anticipiamo parte dell’introduzione che Adriano Sofri ha scitto per “Non sottomessa” (Einaudi, pagg, 120, euro 11,50) il libro di Ayaan Hirsi Ali di cui pubblichiamo un breve brano e che sarà in libreria dall’11 aprile.
Per introdurre questo libro avrei rimesso in ordine cose cui penso da tanto tempo. In breve, penso che sia in corso una guerra mondiale, ancora sparpagliata, per il controllo, e la riconquista, delle donne. Che il corpo delle donne sia il campo di battaglia e insieme la posta del famoso scontro di civiltà sembrava fino a qualche tempo fa un’idea balzana, o provocatoria: ora è quasi un’ovvietà. Ci siamo accorti che anche gli ultimi, quelli che non avevano da perdere che le loro catene, hanno da perdere almeno le loro donne. Quel che più conta, se ne sono accorti loro, gli ultimi: da quando le distanze si sono così accorciate da renderli spettatori di un mondo in cui le donne diventano padrone di sé. Dunque non varrebbe la pena di far ridire da una prefazione quell’ovvietà. Allora cercherò di scrivere cose più allarmate e allarmanti. Sulle minacce che incombono anche su noi, maschi ed europei autoctoni.
Theo van Gogh era un maschio e olandese autoctono. E’ stato ammazzato, non perché fosse una personalità eccentrica invadente e trasgressiva – lo era senz’altro – ma per aver avuto a che fare troppo da vicino con Ayaan Hirsi Ali. Da morto è stato sgozzato ritualmente, e sul suo ventre l’assassino ha conficcato con un coltello una meticolosa lettera, cinque fogli, di devote bestemmie e minacce feroci. Ha fatto da bacheca per il manifesto minatorio di quel fanatico islamista, che annunciava la condanna a morte di Ayaan Hirsi Ali, e qualche altro. Lei vive scortata e nascosta. Gli altri sono avvisati. Anche i suoi editori, i suoi traduttori, i suoi prefatori. Era già successo, dopo la fatwa khomeinista contro Salman Rushdie. A parte la benemerita protezione che gli accordarono il governo inglese e poi americano, gli si fece il vuoto intorno. Passaggi aerei cancellati, firme di solidarietà raccolte a fatica.
Ci fu una imponente manifestazione di viltà occidentale: passò un po’ più inosservata, perché sembrava ancora trattarsi di un caso singolare, legato alla figura d’eccezione di un romanziere famoso. E poi, “se l’era cercata”, coi suoi versetti satanici. Da allora in poi, diventerà sempre più un caso ordinario, di quelli che investono e minacciano di travolgere l’esistenza di gente comune, la gente occidentale che non si immischia. Che si fa i fatti suoi. Che ha dei fortuiti vicini di casa, o una commessa che non vuole mettere il velo.
Fino al 2 novembre del 004 non sapevamo chi fosse Ayaan Hirsi Ali, Theo van Gogh l’avevamo sentito nominare, per lo più, solo come il bravo fratello di Vincent van Gogh. Del suo esuberante pronipote non sapevamo pressochè niente, benchè in patria facesse scandalo, e passasse fra i competenti come un Fassbinder redivivo. Ma non è stata la sua versatile passione per la provocazione ad armare il giovane assassino. Non è stata la ripetizione dell’assassinio di Pim Fortuyn. Là l’omicida era un giovane fanatico ecologista e vagano, olandese di ceppo. Qua un marocchino di origine, olandese di nascita, 26 anni, diplomato, integrato fino a poco fa. Nemmeno di lui, Mohammed Bouyeri, avremmo sentito parlare. E’ facile al giorno d’oggi farsi un nome. Si è procurato addirittura 53 testimoni oculari – una bazzecola, direte, a confronto di Alì Agca.
La reazione prevalente fra i musulmani dopo l’attentato a van Gogh fu : “Se l’è cercata”. Se l’erano cercata, Theo van Gogh, e la sua ispiratrice. Il film sceneggiato da Hirsi si intitola Submission. Significa sottomissione, quella imposta alla donna, ma è anche la traduzione di Islam. Hirsi, la sceneggiatrice, aveva detto in pubblico:”Maometto era un pervertito, le musulmane si ribellino”. Seicento musulmani la querelarono. Nata a Mogadiscio, ha 36 anni: infibulata a sei anni, profuga in Arabia Saudita e poi in Kenya, scampata a un matrimonio combinato dal padre con un cugino. In Olanda è diventata parlamentare, prima per il partito socialdemocratico, poi per il partito liberale. Nel gennaio 2005 è tornata in parlamento, dopo aver trascorso mesi in una località segreta, negli Stati Uniti.
Subito dopo si è aperto il processo a Bouyeri, e il festival di Rotterdam ha cancellato la proiezione di Submission. Gli spettatori più affidabili dicono che non è un gran film, troppo esplicito, troppo manifesto. Undici minuti di contropropaganda.
I versi del Corano impressi sulla schiena nuda di donna accanto ai solchi delle frustate, si immagina bene che quell’espressionismo blasfemo faccia coprire gli occhi e giurare vendetta ai credenti. Tuttavia, non è abbastanza per dire; “Se l’è cercata”. Non è mai abbastanza. Qualcuno ha protestato: “Che cosa direbbero i fedeli cristiani se si rappresentasse così Gesù o la Madonna?”. Non so: so che è successo, succede neanche tanto di rado. Ci sono degli scandali, più o meno rumorosi, più o meno effimeri. Una mostra d’arte contemporanea denunciata in Polonia, un’altra sospesa in Grecia… (Ci fu un bel film di Pasolini grottescamente denunciato per vilipendio alla religione di Stato): Niente di più: e se ci fosse qualcosa di più, sarebbe un delitto.
(Guardate, ho appena citato Pasolini, e bisogna allora che ricordi quale fu la reazione più diffusa alla sua ultima notte. “Se l’è cercata”).
E’ vero che si stentò troppo a riconoscere la rivelazione dell’assassinio di van Gogh. Che campana suonasse, e per chi. E anche dopo, ci furono soprattutto riconoscimenti drammatici ma generici: il fallimento del multiculturalismo, e proprio nella tollerante Olanda… C’era un messaggio molto più specifico, e molto più seccante. Tenetevi alla larga dai nostri usi famigliari. Dalle nostre pie devozioni e dalle nostre frustate.
Non fateci un film. Non scriveteci libri, né articoli di giornale. Tenetevi alla larga dalle nostre donne. Se scappano, con la faccia rotta, e chiedono aiuto, voltatevi dall’altra parte. Del resto, è quello che in generale fate: ebbene, continuate. se no, un nostro giovane diplomato e devoto magari vi sgozza in pieno centro, e vi infilza un sermone nel panciotto.
“Penso di essere atea di natura, ho solo impiegato un certo tempo per trovare la mia convinzione scritta da qualche parte nero su bianco”. L’ho accennato: lo scandalo speciale di Hayan Hirdi Ali sta nel suo proclamato ateismo. “Ho accantonato Dio, e mio padre mi ha voltato le spalle”. Una dichiarazione di ateismo è nel mondo islamico decisamente più rara e impressionante che in quello cristiano. ancora più temeraria in una donna.
Letta la storia della sua vita, e di sua madre, e della sua tragica sorella, quell’impazienza appare inevitabile. Al tempo stesso, sembra paurosamente sproporzionata alla lunga marcia che la liberazione laica delle donne deve affrontare contro la corrente islamista.
Negli scritti di Hirsi troverete notizie interessanti, riflessioni sociologiche, discussioni delle tesi diverse sulle ragioni dell’arretratezza scientifica e culturale e della frustrazione psicologica nell’Islam moderno.
Ma la forza maggiore di questi scritti sta nella compenetrazione così intima fra le vicende personali di Hirsi e le sue posizioni politiche e culturali.
L’infibulazione procurata dalla nonna, le botte e lo scandalo della madre, l’abbandono del padre e il matrimonio imposto, la fuga dalla Somalia al Kenya all’Arabia Saudita e infine in Olanda, la sorella libera e intrepida, poi travolta dal senso di colpa e dalla conversione ortodossa, infine suicida – Hirsi non fa della sua giovane vita la premessa alla sua attività politica e sociologica: le fa coincidere, con una schiettezza e una sicurezza che incutono soggezione. Si tratta delle cose che le sono successe. Chiede di stare con lei o no. E’ come se lo chiedesse a ciascuno di noi, come persona. E alla nostra parte, se la nostra parte è la sinistra già progressista, o quello che ne resta. Lei è passata dalla sinistra alla destra. Non so se abbia fatto bene o male, non conosco la politica olandese, e me ne scuso. Vi segnalo subito però il problema imbarazzante posto dalla scelta di Hirsi.
Sinistra e destra in Europa pensano di distinguersi essenzialmente per l’apertura o la chiusura nei confronti degli stranieri. La sinistra è aperta, la destra è chiusa: oltretutto, da alcuni anni a questa parte, chiusa fino alla xenofobia e al razzismo. Ma lo schema è troppo semplice, ed è andato in pezzi, benchè non lo ammettiamo. (Nemmeno quando dobbiamo spiegarci l’esplosione del caso Oriana Fallaci ci teniamo al riparo della sua eccezionalità, perché la Fallaci sa volgere in un’annessione personale qualunque problema planetario). Hirsi avverte, a muso duro: non si tratta di simpatizzare con gli stranieri e specialmente con i musulmani contro chi li vuole al bando, si tratta di solidarizzare con le donne (e i bambini) straniere e specialmente musulmane contro i loro uomini padroni. Al partito socialdemocratico rinfacciò di rimuovere la repressione delle donne, di “continuare a trattare gli immigrati come un gruppo” omogeneo. E’ un tema ineludibile; benchè, una volta che lo si affronti, restino da trovare la misura e il linguaggio giusti. Una pigra correttezza politica distingue il riconoscimento della cultura altra (compresa la fede e la tradizione e il costume e la legge) dalla proclamazione arrogante della propria superiorità culturale. Ma il riconoscimento della cultura altra, nella forma della confidenza multiculturalista, ha toccato a volte non solo un fallimento di fatto, ma una bancarotta morale: l’indifferenza alle mutilazioni genitali, o la proposta di introduzione della sharia nelle vertenze famigliari musulmane.
Se cercassi di descrivere il profilo della mia autocertificata sinistra, baderei a questo: a una cordialità e ospitalità verso i migranti in cerca di una nuova casa e una nuova vita e, fra loro, alla solidarietà più fattiva e rigorosa con le donne che cerchino la propria incolumità, dignità e libertà personale. Con lo stesso criterio, guarderei alle cose del loro mondo d’origine.
Si tratta, lo capite bene, di qualcosa di più preciso e concreto che l’invocazione dell’”Islam moderato”.
Questo criterio è due volte essenziale. Esso guarda alla discriminazione di sesso, ma insieme alla concezione e alla pratica della sessualità. Che si tratti di donne, impedisce di considerarla come una questione di diritti delle minoranze, benchè l’abitudine a citare le donne nell’elenco delle minoranze svantaggiate o misconosciute sia dura a cedere. La discriminazione di sesso ha al fondo il controllo – famigliare, sociale, religioso e statale – della sessualità L’obiezione di donne ribelli al letteralismo islamico, alla confusione fra legge religiosa e statale, al costume civile, fa leva sulla libertà sessuale come il nucleo più profondo e sensibile della libertà personale. Hirsi, come al solito, lo dice con una brusca franchezza. “Per liberarsi come individuo, uno deve innanzitutto cominciare a pensarla diversamente sulla sessualità”.
Scegliere un criterio, un punto di vista, modifica di colpo il paesaggio cui si è abituati. Prendete l’ansioso paesaggio costituito dall’immigrazione in generale e dall’immigrazione islamica in particolare. Dal punto di vista di una giovane donna musulmana, esso può anche apparire come il più promettente degli orizzonti. Se è così, la questione diventa quella del rapporto fra noi – gli europei autoctoni, donne e uomini, salva verifica – e le giovani donne musulmane. Per esempio Hirsi. Sentite:
“L’unica vera speranza è che i musulmani comincino a fare autocritica e mettano alla prova i valori morali dettati dal Corano. Soltanto allora potranno liberarsi dalla gabbia in cui tengono prigioniere le loro donne e quindi anche se stessi. I quindici milioni di musulmani che vivono in occidente si trovano nelle condizioni più vantaggiose per trasformare questa speranza in realtà”. E gli europei ospitanti? Sono disposti, tutt’al più, a riconoscere che gli immigrati stranieri “sono una risorsa per l’economia”. (O, più a denti stretti, “per la demografia”). Non “una risorsa per la nostra civiltà”. Riluttano a immaginare che i musulmani che vengono tra noi possano essere “i nostri” – “le nostre”. E che a questa possibilità occorrerebbe ispirarsi.
Rallegriamoci di questa lusinghiera descrizione dell’occidente e dell’Europa.
Naturalmente, essa può impensierirci. Bisogna ammettere che il multiculturalismo, cioè la convivenza di culture diverse nel rispetto reciproco, spinto al punto di rassegnarsi a un regime di doppia o multipla legalità, pur scaturendo da un sentimento di generosità e di accoglienza, si traduca in sostanza in un opportunistico Quieto Vivere. Non vi sembri eccessivo che io azzardi un paragone con certi vecchi modi “antropologici” di convivere con la mafia. Parlo della doppia legalità, e del Quieto Vivere con una cultura dell’onore, per così dire, e con una intimidazione brutale da cui guardarsi. Non demonizzo certo l’islam, e tanto meno i musulmani, per i quali al contrario ,uno per uno, una per una, ho lo stesso rispetto e riguardo che ho per qualunque altra creatura umana. Alla bella idea secondo cui esistono tanti islam quanti sono i musulmani credo davvero, benchè vada ormai diventando piuttosto una frase fatta. Il multiculturalismo è oggi ferito a morte non dalla critica teorica del relativismo culturale, ma dalla prova dei fatti. Bisogna correre ai ripari. E però intanto non esagerare: il multiculturalismo, e in generale il relativismo, è una conquista preziosa della civiltà. “Non prendere il multiculturalismo alla lettera”, dice Irshad Manji, con una bella espressione. (non prendere niente alla lettera, insomma). Pessima è la sua trasformazione in un dogma – cioè l’imbecillità. Dopotutto, si tratta sempre della annosa vertenza sul cannibalismo. E sul limite. Il limite insuperabile sta nell’habeas corpus, nel diritto uguale per donne e uomini, nella libertà personale. Al punto della questione di Hirsi. Ci sono troppi luoghi nel mondo in cui professare la fede nel proprio Dio può costare la vita. Questa è un’infamia. Oggi colpisce spaventosamente i cristiani, e li condanna spesso al martirio, dall’Africa al Pakistan al Vietnam. Ma non è meno infame che a casa nostra, in Europa, una donna venga condannata a morte e braccata, da giudici e boia privati, per aver dichiarato di non credere in Dio. Che affronti il rischio del martirio, per testimoniare del proprio libero pensiero. URL=http://www.radicali.it/view.php?id=32686]da radicali.it[/URL]
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