King Kong
di Peter Jackson
con Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody, Andy Serkis, Jamie Bell, Kyle Chandler, Thomas Kretschmann, Lobo Chan (Nuova Zelanda/Usa 2005)
Forse non bisogna aver perso lo sguardo un po’ innocente della fanciullezza. Forse bisogna credere ancora nelle favole, del tipo che la Bella possa davvero innamorarsi della Bestia (e non solo viceversa) ma con queste premesse, praticamente obbligatorie per chi ama il cinema, la nuova versione di King Kong di Peter Jackson può essere una bella sorpresa. Jackson ha dichiarato da sempre la sua ammirazione per il film del 1933 di Cooper e Schoedsack e, almeno all’apparenza, gli resta molto fedele: stesso prologo nella New York ferita dalla Depressione, stesso incontro casuale grazie a una mela galeotta (nel 1933 solo sfiorata, qui decisamente rubata) tra il regista Carl Denham (Jack Black) e l’attrice disoccupata Ann Darrow (Naomi Watts), stesso viaggio sulla nave Venture verso una destinazione sconosciuta. Di diverso, e significativo, c’è la caratterizzazione dei due personaggi: Denham è un regista che non ha più la fiducia dei suoi produttori e che sembra infiammato da una passione a metà cinefila a metà mercantile; la Darrow è un’attrice del vaudeville con qualche abilità di ballerina e di comica. Ma soprattutto di nuovo Jackson (e i suoi cosceneggiatori Fran Walsh e Philippa Boyens) inventano il personaggio dello sceneggiatore Jack Driscoll (Adrien Brody), costretto a viaggiare con la troupe verso l’isola misteriosa, destinato a innamorarsi di Ann e decisissimo a salvarla (nel film del '33 Driscoll era il vicecomandante della nave).
Con questi aggiustamenti curiosi (visto che lo sceneggiatore impersona il buono e il regista invece è più vicino al cattivo di turno. O meglio all’affarista egoista), il film riprende i binari della vecchia edizione con l’arrivo nell’Isola del teschio, l’incontro con la popolazione nativa (qui decisamente aggressiva, a differenza di quella del '33), il rapimento di Ann per essere offerta al mostro Kong, con Denham, Driscoll e una parte dell’equipaggio che si mettono sulle sue tracce scoprendo di essere finiti in un’isola popolata da mostri preistorici. È a questo punto che il film di Jackson gioca i suoi due «assi», imprimendo al film una lettura decisamente più personale: da una parte sfrutta fino in fondo tutte le possibilità offerte dall’accoppiata tecnologia digitale/cinefilia, dall’altra ribalta i termini dell’attrazione tra la Bestia e la Bella facendo «innamorare» la donna della scimmia.
La fauna preistorica dell’Isola è il pretesto perfetto per mettere in campo un armamentario di tecnologie digitali davvero straordinarie, ai limiti quasi dell’incredulità (la fuga tra le gambe dei brontosauri pur realizzata perfettamente spinge troppo il pedale dell’avventura «impossibile»), con combattimenti di ogni tipo, strizzatine d’occhio a mezza storia del cinema ma anche la dichiarata volontà di non fermarsi alla «citazione» ma di portare lo spettatore su un terreno «già visto» per poi sorprenderlo con un inaspettato colpo di scena. Come nel combattimento con i tirannosauri che da «clone» kolossal di Jurassic Park diventa qualcosa di completamente diverso nella scena in mezzo alle liane del burrone. È l’anima della megaproduzione che si fa largo in queste scene e conquista la ribalta, superando per perfezione tecnica quanto si era visto fino a ieri e imprimendo alla storia un’andatura da film di avventure (più che da film fantastico/horror come era il King Kong del '33). Svelando così le preoccupazioni produttive e di marketing dell’operazione, tesa a catturare un pubblico anche più giovane (e più vasto) di quello che aveva fatto la fortuna della trilogia tolkeniana (pur con qualche concessione quasi-splatter, come nel primo incontro con la tribù nativa e nello scontro tra il gruppo degli inseguitori e gli insettoni giganti).
L’altra, sostanziale, differenza rispetto al film del 1933 è nel rapporto tra Kong e Ann che evolve quasi subito dall’attrazione provata dallo scimmione per la sua prima vittima bianca (e bionda) a un rapporto di reciproca tenerezza che trova la sua giustificazione nel bisogno di protezione della donna, accortasi che solo Kong può salvarla da tutti i pericoli dell’isola. Tanto che invece di attraversare il film mezza svenuta come faceva nel 1933, questa Ann Darrow finisce per condividere con il mega-gorilla anche un abbozzo di sentimento: per la bellezza del tramonto ma evidentemente anche per la sicurezza che la Bestia riesce a far provare alla Bella. Con una perdita irrimediabile, però: in questo modo sparisce dal film qualsiasi pulsione sessuale tra Kong e Ann, che nel romanzo di Wallace era esplicitato più volte, con scene addirittura di spoliazione, che nel film di Cooper e Schoedsack era fatta intuire in maniera piuttosto chiara ma che qui viene negata a ogni livello, compreso quello più banalmente visivo: sottoveste rigorosamente intatta (spalline comprese) e vestito che deve aver perso solo qualche bottone ma che continua a coprire pudicamente la protagonista. Le conseguenze di queste due scelte artistico/produttive si faranno sentire pesantemente nella parte finale, quando la troupe torna a New York con il gorillone cloroformizzato per esporlo come «l’ottava meraviglia del mondo». La liberazione dalle catene e la fuga per le strade di New York è più lunga e complessa di quella del film di Cooper e Schoedsack, con una precisione nella ricostruzione ambientale che ha del maniacale (le auto usate sono per la maggior parte autentiche e perfettamente funzionanti, i biplani della scena finale sono stati ricostruiti usando i progetti originali dell’epoca, conservati allo Smithsonian Institute) e l’intermezzo sentimental-comico sul laghetto ghiacciato di Central Park è la conferma obbligata del rapporto che esiste tra i due e la premessa necessaria allo straziante finale sul tetto dell’Empire State Building, dove la fuga con la propria preda (com’era nel film del 1933) diventa il combattimento per difendere la propria donna.
In questo modo, il film finisce quasi per prendere la forma di un melodramma, una specie di riflessione disperata sulla forza dell’amore e sull’impossibilita dello stesso, capace di rendere credibile il nuovo coinvolgimento dell’eroina nel già annunciato sequel (che dovrebbe essere un remake molto, molto libero di «Il figlio di King Kong», ambientato durante la seconda guerra mondiale). La versione di Peter Jackson finisce così per mettere in secondo piano la riflessione sul mondo del cinema e dello spettacolo, nonostante il personaggio più caratterizzato di Carl Denham, che però riduce praticamente tutto al diktat The Show Must Go On (e soprattutto la gente deve pagare un biglietto per vederlo), mentre mantiene le sue promesse sul piano dello spettacolo e dell’avventura, aggiungendo nel finale una capacità di commuovere che sicuramente avrà il suo effetto sull’andamento del botteghino.
Memorie di una geisha
di Rob Marshall
con Ziyi Zhang, Ohgo Suzuka, Ken Watanabe, Michelle Yeoh, Gong Li, Koji Yakusho, Mako, Samatha Futerman, Momoi Kaori (Usa 2005)
Esotismo da esportazione, della peggior specie, fatto tutto di controluce, paesaggi multicolori, musiche insinuanti (con Yo Yo Ma al violoncello e Itzhak Perlman al violino) e tutto quel folclore pseudo-orientale che speravamo dimenticato per sempre. Invece qui torna a piene mani per raccontare, sulla base del best seller di Arthur Golden, le disavventure di una ragazzina, Chiyo (Ohgo Suzuka), venduta dal padre a una casa di geishe. Che naturalmente dovrà affrontare le cattiverie del mondo, le gelosie delle donne e le passioni degli uomini per poter coronare il suo sogno d’amore.
Coreografo passato alla regia con Chicago, Rob Marshall cerca di trasformare tutto in un balletto, di caratteri o di numeri musicali poco importa. In questo lo aiuta il «misterioso» mondo delle geishe, di cui non dice praticamente niente (se non le crudeltà che – per soldi – si impongono l’un l’altra) e che ci racconta in uno stato di continua trans estetica, affascinato ora dall’acqua che scende da una grondaia, ora da un giardino in fiore, ora dal fumo di una sigaretta. Come se stesse girando uno spot per la Ridley Scott e C. Che però non dura 90 secondo ma due ore e venti minuti. Decisamente troppo, nonostante la bellezza incontestabile delle protagoniste: Ziyi Zhang nel ruolo di Chiyo da adulta, Michelle Yeoh in quella della «sorella» protettiva e Gong Li in quella della acerrima nemica.
Shanghai Dreams
di Wang Xiaoshuai
con Li Bin, Gao Yuanyuan, Tang Tang, Wang Xueyang, Yao Anlian (Cina 2005)
Forse per evitare di incorrere nelle censure che gli avevano bloccato il precedente «Le biciclette di Pechino», Wang sceglie di dire le cose in maniera non esplicita e di raccontare con meno cattiveria del prevedibile la crisi familiare e professionale di una famiglia «deportata» da Shanghai nel centro della Cina per lavorare in una fabbrica. Era successo negli anni Sessanta, quando la paura di un attacco sovietico aveva consigliato di decentrare alcune industrie essenziali ma quando comincia il film, all’inizio degli anni Ottanta, quel pericolo non c’è più e gli adulti si chiedono come poter tornare a Shanghai e assicurare un futuro migliore ai loro figli. Mentre i figli si chiedono come evitare le rigide regole educative dei genitori e conquistare quella libertà che la musica pop sta facendo loro conoscere. Il tema centrale del film è evidentemente il fallimento dei modelli maoisti di organizzazione sociale ma anche di educazione personale: un soggetto ancora tabù in Cina, che Wang affronta con mano leggera, sfumando le contraddizioni e distribuendo le colpe un po’ per uno, tra le vecchie e le nuove generazioni.
http://www.corriere.it/Rubriche/Cinema/?fr=tcolKing Kong è da VEDERE